Nonostante sia stato attribuito a Salomone (1,1), il libro dei Proverbi ha avuto diversi autori, che, nella parte più antica, risalgono all’epoca della monarchia in Israele (X-VII sec.). I primi nove capitoli, da cui è stato tratto il testo di oggi, riflettono la concezione della Sapienza, come si è affermata dopo l’esilio babilonese (V sec.): la Sapienza diventa anzitutto una prerogativa divina, e non è più soltanto un mezzo per ottenere successo e benevolenza.
Il libro dei Proverbi descrive la Sapienza anteriore a tutto, ma anche principio di tutto, principio nel tempo e principio di ogni realtà: l’uomo, che osserva la realtà del mondo che lo circonda, non può che notare la perfezione dei meccanismi che reggono l’universo ed ipotizzare che vi sia un’intelligenza alla base di questo grande, meraviglioso progetto che si stende innanzi ai nostri occhi e la cui contemplazione, ancora oggi, ci lascia senza fiato.
L’Antico Testamento è giunto fino ad affermare che Dio non è solo nel creare il mondo. Tuttavia, è senz’altro singolare questa immagine della Sapienza, mostrata come un bimbo piccolo che, come tale, ama guardare papà al lavoro, senza smettere di giocare. È esperienza del tutto comune infatti, per chiunque abbia bimbi di età inferiore ai tre anni che, spesso, richiedano e – quasi – pretendano la presenza del genitore. Molto spesso, non chiedono null’altro. Basta poter avere un po’ di spazio per giocare e la possibilità di accertarsi – anche solo con uno sguardo – che papà o mamma siano lì, nella stessa stanza. I bambini più tranquilli potrebbero rimanere ore, senza quasi dar segno d’esser lì. Quelli più intraprendenti, molto probabilmente, ad un certo punto, si alzerebbero, si avvicinerebbero per guardare cosa rapisca l’attenzione dell’adulto in modo così assoluto. A seconda del lavoro svolto, potrebbero essere compiti da correggere o da preparare, progetti da sistemare, corrispondenza a cui rispondere, lavori manuali di precisione con il legno od il metallo, il rammendo di un calzino, oppure un artistico ricamo. I più curiosi ardirebbero persino a domandare: «Che stai facendo?», con un’espressione di vivo interesse e stupore disegnata negli occhi.
È curioso pensare che un’immagine di questo tipo sia utilizzata per mostrare la Sapienza, che invece percepiremmo come noiosa, anziana, magari anche un po’ scorbutica ed antipatica; di certo, non con le fattezze, la fragorosa risata e l’infantile monelleria di un bimbo, che può affermare «questo l’ho fatto io», mentre indica, con orgoglio inusitato una microscopica superficie che il babbo, dopo mille insistenze, gli ha “concesso” di dipingere, mentre si occupava dell’imbiancatura della stanza.
Il Prologo giovanneo, riprendendo la speculazione israelita, identifica questa Sapienza, con il Verbo di Dio, ciò Gesù stesso, nel quale Dio si è fatto uomo e si è mescolato tra gli altri uomini. Da primo che era, ha scelto di farsi ultimo, per condurre tutti a salvezza, tramite quel legno della Croce, che, ancora oggi, rimane uno scandalo persino per noi, che fatichiamo a lasciarci turbare le feste dalla ragione che spiega il mistero dell’Incarnazione. Quella croce e e quella corona di spine che noi allontaniamo, come vorremmo allontanare ogni sofferenza umana, sono – inevitabilmente – il tramite per la salvezza. Gesù stesso ha provato ad evitarle. Ma non è stato possibile.
Ci aspettavamo la gloria, la potenza,la pace, la libertà, senza fatica. Cristo ci ha portato l’umiltà, l’inquietudine, la turbolenza, la difficile coerenza.
Ma non ci ha mai sottratto la cosa più importante, quella che, da sola, illumina ogni cosa (la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta – Gv 1, 5): la Sua presenza, che è in grado di essere Luce, senza toglierci la fatica del nostro quotidiano cammino che ci chiede di diventare migliori, affinché la grazia di Dio non sia stata vana (1Cor 15, 10).
Rif: letture festive ambrosiane, nell’Ottava del Natale, Anno A – Pr 8, 22-31; Col 1, 13-20; Gv 1, 1-14
Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone
Nel rito ambrosiano l’ottavo giorno dopo il Natale è consacrato alla memoria della circoncisione del Signore. La festa della divina maternità di Maria, cui nel rito romano è dedicato il primo giorno dell’anno, nel rito ambrosiano è stata già celebrata alla VI domenica di Avvento.
Otto giorni dopo la nascita, come recita il vangelo di oggi, “i giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre ” (Lc 2, 21).
Con la celebrazione di questo rito la festa del Natale è piena: il Figlio di Dio entrato nella carne della nostra umanità, si inserisce nel popolo della promessa, sottoponendosi alla legge della circoncisione. Figlio dell’uomo e figlio d’Israele, dall’interno della condizione umana condivisa fino al segno estremo – salvo il peccato – libererà l’uomo dal giogo del peccato e della morte e dalla stessa legge che Dio aveva dato al suo popolo come guida nel cammino, per elargirgli un dono più grande, assoluto: la grazia della salvezza.
Il suo nome “Gesù” significa infatti “Salvatore”, colui che, assumendo l’umanità, la riconduce alla sua somiglianza originaria, ridonandole la bellezza che aveva mentre usciva dalle mani creatrici del Padre. Solo i poveri – i pastori che accorrono alla grotta – hanno occhi per riconoscere e adorare stupiti in un Bambino il rinascere di questa antica bellezza.
(ChiesadiMilano)
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