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Somigliano ad un ponte le beatitudini di questa domenica. Un ponte sospeso tra due abissi: tra il giorno in cui la Chiesa celebra il ricordo dei propri Santi e il giorno successivo nel quale la Chiesa commemora i propri defunti. Feste misteriose, con addosso quell’arcano sospetto che i cristiani siano gente dello struggimento. Che piangono i morti come si piange sul latte versato, che guardano ai santi con malcelata compostezza come per dire: “Sì, ok, ma quelli mica erano normali”. Un popolo, quello che dice d’amare il Nazareno dei Vangeli, che sembra sempre sul ciglio della disfatta, ad un passo dal gusto per il macabro. Il Vangelo di oggi, invece, rischiara l’orizzonte (liturgia della Solennità di tutti i Santi). E’ come uno squarcio che s’apre nel mezzo di una sfuriata del cielo e permette di scorgere piccoli anticipi di luce, l’avanzare del sereno, il sapore del raccolto.

Eppure che senso ha dare del beato a chi oggi è uno scarto, all’uomo della periferia e dei cassonetti? «Beati (…) Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Facile promettere orizzonti di felicità domani: è l’oggi quello che all’uomo fa spavento, lo fa tremare, gli stordisce persino il cuore. In Chiesa è anche bello sentirle risuonare queste parole: la loro eco lascia come riverbero degli istanti di quiete e di spensieratezza. Il problema è oltre quella porta della chiesa di paese: laddove la storia chiama, grida, insulta. Smarrisce persino la voce nel chiedere aiuto. Beati voi! Certi giorni anche il Cielo sembra irridere i rantoli di quaggiù. Parole strane quelle delle Beatitudini – «Le parole più alte che l’umanità abbia ascoltato» (M. Gandhi) – parole così strambe e sghembe da gettare il sospetto che siano le uniche degne d’essere ascoltate. Le uniche dalle quali lasciarsi stordire persino i sensi per poi allenarli a gustare la storia per davvero, non per come sembra a noi. Eccolo il senso spettacolare di questa simpaticissima coincidenza della liturgia. Chi sono i Santi? Sono quelle persone che hanno saputo leggere la storia con gli occhi di Dio. Persone – che non sono nate sante, ndr – che hanno accettato di lasciarsi guardare dal Cielo fino a riuscire a pensarsi come Dio li ha pensati: uomini perfettamente uomini. Così ricchi d’avere se stessi in proprio potere. Guarda, poi, che strano destino è toccato a loro: li abbiamo imprigionati nei capitelli delle chiese – trafitti di spade, desiderosi di fustigazioni, con in mano fiori di giglio o pezzi di carne sanguinante – quando invece il loro salotto era la strada. Armati di beatitudini, hanno guardato in faccia la storia e l’hanno attraversata. Non aggirata e nemmeno scansata. Eroismo? Più che eroismo si trattò forse di fiducia. Che oggi, a fidarsi di qualcuno, sembra sia più la alta tra le forme di eroismo. Scesi in strada consapevoli che ognuno ha l’avvenire che si merita: oggi scartati e domani beati. Con quell’inaudita fanciullità di spirito che spinse qualcuno di loro a lambire il terreno della follia e del paradosso. Finendo per chiamare sorella quella che per taluni invece è nemica, l’esatto opposto: la morte, per l’appunto. Sorella, invece: quasi una porta che, attraversata, getta sull’altrove di Dio.
Io i santi me l’immagino da sempre come uomini coi piedi ben piantati per terra, quasi infossati dentro le strade consunte della storia: «Nessuno prende la realtà sul serio come il santo perché in verità ogni fantasticheria, sulla sua strada irta di pericoli, inesorabilmente si vendicherebbe. Diventare santo significa per l’uomo reale staccarsi da sé, per entrare nel Dio reale» scrisse un giorno Romano Guardini. La santità, dunque, come il massimo del realismo più che l’elogio della fantasia. Quel gran genio di Cartesio un giorno scarabocchiò una delle frasi che l’hanno fatto amare al popolo dei pensatori: «Cogito ergo sum» (“Penso, dunque sono”). Karl Barth, un teologo protestante, un giorno manomise quella scritta incastrandoci l’imprevisto di una semplice sillaba. Fu l’apparizione del Mistero: «Cogitor ergo sum» (“Sono pensato, dunque sono”). E il santo è tutto qui: un lasciarsi pensare da Dio e vivere come da Lui pensato.

La stessa cosa avviene per i funerali che io voglio solenni. Poiché non si tratta di sistemare un corpo nella terra, ma di raccogliere senza perdere nulla, come da un’urna che si è rotta, il patrimonio del quale l’uomo era stato il depositario. E’ difficile salvare tutto. L’eredità dei morti si raccoglie lentamente. Occorre piangerli a lungo, meditare sulla loro esistenza e celebrare l’anniversario della loro morte. Devi voltarti indietro molte volte per osservare che non si dimentichi nulla.
(A. de Saint-Exupéry, Cittadella)

Forse per questo i Santi li abbiamo castigati nei capitelli: ci fa paura quell’immensa libertà d’essere riusciti a lasciarsi pensare per imparare ad essere. Che scandalo questi uomini con le mani in pasta: a guardarli, quasi s’inciampa lo sguardo.

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