È dei giorni scorsi la notizia che il tragico ferimento di un’atleta italiana di origini nigeriane si sia ben presto trasformata in una di quelle pantomime d’italica attualità. Faccenda tanto più grave perché sminuisce, al contempo, sia la gravità del razzismo, in qualunque forma esso sia attuato, sia l’imbecillità di atti vandalici e violenti, indirizzati nel mucchio, a cui si applica (invano) la scusante della “bravata” e della “noia”. Invano, perché una volta raggiunta la soglia della consapevolezza di sé e della maggiore età, simili scusante risultano assolutamente ridicole: si tratta di atti violenti, che richiedono di essere perseguiti con tutta la forza della legge, a tutela della comunità di cittadini, chiunque siano i colpevoli di tali atti.
Ma andiamo con ordine. Che si intende con «razzismo»?
«In senso stretto, il razzismo, come teoria della divisione biologica dell’umanità in razze superiori e inferiori, è un fenomeno relativamente recente. È antichissima, invece, la tendenza a discriminare i ‘diversi’ (nazioni, culture, classi sociali inferiori), e la principale funzione del razzismo, in tutte le varianti, fu sempre di giustificare qualche forma di discriminazione o oppressione» (Sergio Parmentola, Treccani)
In senso ampio, in verità, viene da pensare che il razzismo abbia in realtà radici piuttosto antiche: basti pensare al pensiero che sottostà, da sempre, allo schiavismo: in quasi tutte le culture antiche era considerato sostanzialmente normale e non problematico l’utilizzo di schiavi, in particolare per i lavori più umili e faticosi. Guarda caso, però, quasi sempre, gli schiavi erano scelti al di là del clan familiare e, più in là, tra gli stranieri. Si pensi, ad esempio, come nel popolo ebraico fosse comune la presenza di schiavi, che però erano abitualmente scelti tra coloro che non facevano parte del popolo israelita.
A poco a poco, si è fatta strada l’idea che nazionalità o colore della pelle non fossero così fondamentali nel definire una persona: eravamo un po’ come una tabula rasa, secondo una tale concezione. In realtà, risulta evidente come, in senso assoluto, non sia esattamente così: nessuno di noi è del tutto slegato dal proprio passato, dalla propria famiglia e dai legami personali più ampi, anzi! Sono sempre il punto di partenza con cui confrontarsi e, eventualmente, decidere qualcosa di diverso per sé. Tuttavia, è vero che, ai cittadini di uno stesso stato, quanto meno nelle nazioni occidentali, almeno sulla carta, sono riconosciuti a tutti, indistintamente, gli stessi diritti (ma, anche, gli stessi doveri!).
Il razzismo si basa sull’illusione che si possa stabilire una “purezza della razza”. Ciò – è ormai acclarato – è, anche solo per ipotesi, assolutamente impossibile, in questo momento storico. Il commercio, i viaggi, le esplorazioni hanno favorito la mescolanza tra i popoli, cosicché nessuno è effettivamente in grado di dirsi al 100% proveniente da un unico Paese, avendo avi, più o meno lontani, sicuramente sparsi in varie parti del mondo.
È falso ritenere che il razzismo sia violento (verbalmente o fisicamente). Anzi, molto spesso, così come le discriminazioni, spesso si manifesta in modo subdolo, meschino. Un pensiero, un sottinteso, una tacita affermazione di superiorità. L’aggravante del razzismo sussiste sempre quando la vittima è scelta espressamente in quanto di colore, o di etnia diversa dalla propria. Meccanismi simili, in realtà, non coinvolgono solo le razze oppure il colore della pelle. Intendendo il razzismo in senso ampio, vale a dire come ogni espressione discriminatoria nei confronti di chi si dimostra, in qualche modo, diverso, gli esempi, spesso non violenti, sono tantissimi. Basti pensare a tutte quelle donne a cui il lavoro è negato, non per incompetenza, ma in quanto sono o saranno madri. Oppure, basti pensare a quegli ospedali in cui essere obiettore diventa fonte di discriminazione. Gli esempi sono innumerevoli. La diversità è una ricchezza, ma non sempre è facile coglierla.
Detto questo, mi preme però specificare un dettaglio, affatto secondario. Episodi come quello citato in precedenza sono senz’altro spiacevoli e deprecabili, ma non si tratta di razzismo. Mi ritornano alla mente fatti che per molti sono ormai dimenticati, ma io li conservo ancora vivi nella memoria, perché all’epoca ero una bimba ed erano le prime notizie che iniziavo a leggere sui giornali. Il 26 dicembre 1996, la “banda del Cavalcavia” registrava la sua prima vittima: Maria Letizia Berdini. Siamo a Tortona, nei pressi del cavalcavia della Cavallosa. Da mesi, ormai, qualcuno getta pietre, dall’alto, sulle auto che sfrecciano di sotto. “Prima o poi ci scapperà il morto” deve aver pensato qualcuno. Quando è successo per davvero, ci si è resi conto che non era solo una bravata. Che era un comportamento mortifero, oltre che stupido. Vigliacco, oltretutto, perché andava a colpire nel mucchio, senz’alcuna logica, sfidando la sorte. Non appena sentii la notizia di questi giorni, il mio pensiero è corso a questo episodio, a come la noia possa arrivare a far diventare assassini anche quelli che, per tutti, sono bravi ragazzi.
Leggendo poi le parole dei genitori dei colpevoli, mi balenano alla mente due riflessioni. La prima è la facilità allucinante con cui affibbiamo i nomi sbagliati a quello che succede, creando notizie false e tendenziose. La seconda, di fronte a due genitori increduli e distrutti che, ignari, fino a poche ore prima, stigmatizzavano l’accaduto è quanto poco, spesso, conosciamo i nostri ragazzi. Ogni volta che avviene un fatto di cronaca, i colpevoli sono sempre gli altri, da additare, da condannare. Quando il Male entra in casa nostra, però, non sappiamo più cosa dire.
Forse questa vicenda di falso razzismo può insegnarci persino più che se fosse stata vera. Ci invita ad avere la pazienza di attendere gli sviluppi e capire bene cosa sia accaduto, così da evitare di gridare al pericolo quando non c’è, con il rischio di non essere creduti poi (come insegna la favola di Al lupo, al lupo!). Più di tutto, però, ci invita a non dare mai tutto per scontato. A volte, il ragazzo annoiato che, in cerca di adrenalina, si rende protagonista di episodi di violenza non è lontano: anzi, a volte, è talmente vicino, da abitare insieme con noi!
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