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(“Natale” è un sostantivo. Ma può anche diventare un verbo, una storia, una percezione. “Natale” è vita: e la vita ha molti soprannomi. Anche Dio si è dato un soprannome: “Emmanuele”. Ti voglio confidare cos’è per me “Natale”: è Ciro. Nome proprio di persona, maschile, singolare: e tanta risurrezione cucita addosso. Se ci vuoi raccontare cos’è per te “Natale”, ci farai dono di una fede condivisa che diventa sorpresa. Per essere vera).

(Testo di Marco Pozza – Foto: Alberto Bevilacqua) – Come una notizia allarmante per la sicurezza di una città: un detenuto ristretto nella zona più cupa del carcere di massima sicurezza di Padova è evaso sotto gli occhi impotenti di tutti. E’ stata un’evasione in piena regola, perfettamente riuscita e passibile d’imitazione nei mesi prossimi a venire. E’ bastato un complice di spessore – uno di quelli coinvolti direttamente nella guerra tra grazia e disgrazia, un certo Agostino d’Ippona – per fornire al detenuto in questione l’occorrente per la fuga. Perchè dal carcere si può evadere senza infrangere la legge, anzi facendola brillare di splendore: se non è nelle possibilità di una persona detenuta scappare da una cella, è però nelle sue possibilità decidere come vivere dentro quella cella. Da liberi o da schiavi.

Ciro Ferrara, campano di Casoria, ha 53 anni ed abita in cella da 30 anni. Ha iniziato il suo “Giro d’Italia delle carceri” che non sapeva nemmeno apporre la sua firma nei documenti. Poca grammatica nel curriculum e tanta allergia allo studio, supplita da altrettanta illegalità nella casella giudiziaria. In carcere, però, basta uno spigolo di specchio per ricordarti che la tua faccia è l’unica storia che un giorno potrai raccontare; e l’unica responsabilità che puoi assumerti nella vita è la tua. Ma devi assumertela pienamente. Quasi sulla soglia dei cinquant’anni Ciro s’iscrive alle elementari: “la cultura di un autodidatta all’interno del carcere è qualcosa a dir poco difficile da descrivere – racconta Ciro Ferrara -. Ho fatto un percorso di studio con dei professori eccellenti, che hanno saputo estrarre qualcosa che era interrato dentro di me”. Finisce le scuole elementari: impara a leggere, a scrivere, a ragionare. S’innamora e tenta anche le scuole medie, che termina: sospetta che la cultura non sia solo sapere ma anche sapore e sapienza. Prova le superiori: dopo cinque anni ha il diploma di ragioniere. Sa fare i conti, gestire una situazione, usare la punteggiatura. S’innamora del più ricco dei segni di punteggiatura: il punto di domanda. Che un giorno gli porge come regalo di maturità proprio un interrogativo: “perchè fermarsi proprio adesso?” Prosegue la sua corsa e s’iscrive all’Università di Padova, nella Facoltà di Lettere e Filosofia. La cella diventa un laboratorio di sapere, i giorni diventano occasioni, le ferite si tramutano in feritoie, le sbarre somigliano agli scaffali di una biblioteca: “quando ci si sveglia in carcere – racconta Ciro – il primo desiderio delle persone è quello di prendersi un buon caffè. Invece al mio risveglio, mi piace odorare i libri e stare con loro tutto il giorno: mi mettono quella sobrietà che mi accompagna nel mio quotidiano”. Ciro soffre d’insonnia ma non vuole disturbare il compagno di cella (ops, il compagno d’appartamento): una notte si chiude in cella con un libro in mano – Le Confessioni di sant’Agostino – e inizia a leggerlo. Legge quella storia ma si accorge che è la sua storia, sta leggendo ma nello stesso tempo si sta facendo leggere da quel libro, percepisce che quelle parole sono uno specchio: gli parlano, lo interrogano, lo tormentano. E’ a metà degli esami universitari, fuori la notte è cupa: inizia a progettare la sua tesi. L’oggetto è imbarazzante: “Il concetto di tempo in Sant’Agostino”. Il tempo: quello che non passa mai dentro la cella, il nemico degli ergastolani come lui, l’angoscia del calendario infinito. Agostino: l’uomo che definì felix (litt. “felice” ma anche “fertile”) il suo peccato e la sua colpa perchè gli permisero di incontrare Cristo. Ciro è povero: non ha nemmeno un quaderno ma non vuole che quell’idea gli sfugga: se la scarabocchia sulla carta igienica appesa vicino al water. Un incipit di perfetta periferia: “oggi è la rivalsa di una vita travagliata, il riscatto da un passato vissuto al limite – commenta uno degli agenti di Polizia Penitenziaria della sezione “Alta Sicurezza” – Non sta a noi giudicare cosa è stato, abbiamo l’obbligo e la volontà di discutere il presente: oggi è un giorno importantissimo”.
Il semianalfabeta Ciro Ferrara è diventato “dottore” ed è evaso definitivamente: non dal carcere ma nel carcere, impresa assai più ardua e ardita. Scortato da Agostino d’Ippona, quello che un giorno disse: “Chiamasti, gridasti, vincesti la mia sordità (…) Mi toccasti e bruciai dal desiderio della tua pace”. 110/110: eppure la festa non sta in quei numeri. Ma nell’aver cercato e nell’essersi lasciato trovare da quella Bellezza che infonde pace ai sensi e luce al quotidiano. Anche dietro le sbarre pesanti di una galera di periferia perchè – parola di papa Francesco, amico dei detenuti – “nessuna cella è così isolata da escludere il Signore”. Nessuna cella e nessun misfatto: parola di Agostino.

(da Credere, 29 dicembre 2013)

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