Si dice che siano i dettagli a cambiare le situazioni, perché le piccole cose sono quelle in grado di ricoprire un ruolo ancora più determinante di quelle mastodontiche. Forse è per questo che assistiamo, quotidianamente, ad una rincorsa alla “cattura dell’attimo”, con ogni forma di macchinario atto a fare ciò (smartphone, tablet, fotocamera).
Ogni tanto, chiudo gli occhi e ricordo alcuni dettagli della mia vita.
Mi ricordo le foto centellinate sul rullino da 36 della macchina fotografica durante le gite vissute al tempo delle scuole elementari: ricordo il timore ad ogni scatto, pensando che ogni foto doveva avere un senso, altrimenti era uno spreco (di soldi, di materiale, di tempo). Forse il primo pensiero che viene è come sia lontana questa realtà dai ragazzi di oggi che, dalle elementari ormai, sono abituati al mondo virtuale, a telefoni che fanno ogni cosa, a consultare Google per una ricerca scolastica (o per tutt’altri motivi) e, senza dubbio, anche alla “volatilità” delle foto digitali che fa sì che non siano più da centellinare, come in passato, quando era necessario cambiare il rullino alla macchina e portarlo a far sviluppare dallo studio del fotografo.
Tuttavia, constato l’esistenza di un’altra realtà, che, in un certo senso, si oppone strenuamente a tutti i cambiamenti che stanno avvenendo in questi ultimi anni. Si moltiplicano le dettagliate foto di tavolate di aperitivi, gli autoscatti autocelebrativi che sembrano ritrarre come momenti unici anche un semplice uscire a fare la spesa, andare a correre o prendere un treno, i baci in posa tra coppiette, l’ostentazione corporea o anche solo intellettuale (ad esempio, durante un momento di studio in biblioteca). Tutti questi esempi non sono tra loro in alcun modo equiparati, né necessariamente sbagliati, se presi singolarmente; ma l’effetto complessivo risulta essere qualcosa di devastante: tradisce lo spasmo di “fermare l’attimo” (pagando, magari, lo scotto di non viverlo appieno), evidenzia un’autoreferenzialità sempre più generalizzata, sottolinea il bisogno di sentirsi qualcuno nel rendere pubblico e accessibile a tutti il proprio divertirsi, realizzarsi, lavorare, fare famiglia, unito con una confusione spesso accentuata della sfera pubblica e privata. Il risultato finale è spesso l’incapacità di effettuare una selezione, di garantirsi dei momenti privati ed esclusivi, di saper scegliere qualcosa come un elemento che fonda la propria vita, senza la necessità però di dover essere condiviso. La condivisione, da parola noiosa passata di tanto in tanto per le bocche di qualche prete come invito a non rimanere soli con i propri averi, ma farne partecipi anche gli altri, è diventata oggi un grande fraintendimento: rischia infatti di essere un melting-pot, confuso e confusionario, di emozioni messe insieme, mai analizzate o selezionate, ma rese disponibile al pubblico ludibrio od acclamazione.
Per un momento, però, mi viene da pensare al buio dell’oblio. Un oblio, nel senso positivo del termine. È quello che accoglie, protegge ed accudisce tutto ciò che non è raccolto dall’obiettivo di un fotografo, che non è condiviso su un social network, che non è all’avida ricerca di un “mi piace” per poter rendere forte il proprio ego e nutrire il proprio appagamento personale delle necessarie lodi e della mai saziata approvazione sociale. Tutto quello che non appartiene a queste categorie appena citate è proprio ciò che fonda e rende bella la nostra vita, ciò che porta con sé spontaneità e gratuità, che ha il sapore dell’umanità coraggiosa ed autentica di chi si mette in gioco, di chi mette a nudo la propria anima prima del proprio corpo (ma solo nei confronti di chi sia capace di tenerezza e misericordia).
Ci sono attimi di silenzio confortevole, che riempiono l’anima più di anni di parole: di gioia inaudita, di consapevolezza, di ammirazione, di stima, di gratitudine. Sono momenti che non potranno mai essere mai spiegati, né raccontati in modo sufficientemente esaustivo da comprenderne il senso e la profondità.
Ci sono dolori che solcano il cuore, che scavano solchi profondi, cambiano l’anima, il corpo e la mente. Non ci sono parole per spiegarli, immagini per descriverli, suoni per renderli espliciti. Eppure, parlano senza parole, si mostrano senza immagini, si fanno percepire come la melodia più struggente e delicata che possa mai essere composta.
Ci sono sguardi che s’incrociano appena, si sfiorano inconsapevolmente, magari, ma sono capaci di dare vita a dialoghi intensissimi, pur nella brevità del loro incontro.
Ci sono incontri che segnano la vita, anche quando non sono scelti o ricercati, ma non sono altro che l’emozione inaspettata di un attimo che ti ha colto impreparato e ti ha fatto cambiare la giornata.
Ci sono parole, che con la loro genuina spontaneità, sono capaci di farsi nutrimento e vita, carezza disponibile a lenire anche le sofferenze non esternate.
Ci sono gesti di attenzione e di tenerezza, che non sono altro che “piccole cose”, “cose da nulla” che costellano la nostra vita, ma che hanno il pregio, singolare ma preziosissimo, di aumentarne il gusto, oltre all’inconcepibile ma innegabile dono di poter comunicare almeno un raggio dell’Amore di Dio (che, spesso, nella sua manifestazione è, innanzitutto la tenerezza di chi prova a prendersi cura della tua persona con un’attenzione che ti dice che il tuo semplice esistere sia un’opportunità per il mondo intero). No, questo non è un revival nostalgico “dei bei tempi andati”; in realtà ha la pretesa di essere anche qualcosa di più. Non c’è nulla di male nel voler fissare un momento per sempre nella propria memoria, di volerne fare tesoro, come se fosse uno scrigno; e, in verità, non c’è nulla di male neppure nel desiderio di condividere dei momenti speciali con qualcuno.
Discorso a parte merita la necessità, reale o indotta, di condivisione forzosa e “di massa” di un’emozione che richiama le nostre sensazioni più intime. Ma c’è qualcosa di più.
Nonostante la spasmodica ricerca di rendere ogni istante della nostra vita e delle nostre emozioni in immagine, ci sono “buchi neri” che sfuggono e continueranno a sfuggire al vortice della condivisione. Per fortuna. Sono la bellezza della nostra intimità, della nostra elaborazione più intima, che potremo condividere solo con chi accetta di condividere attimi di silenzio, l’incrociarsi di uno sguardo muto, un’intesa tacita, un’empatia progettuale che nasce dal viaggiare sulle stesse frequenza per un’affinità che presuppone una scelta reciproca e consapevole e non un’esposizione pubblica ed indiscriminata del proprio sé.