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È il 4 settembre 1967: alla presenza del presidente Saragat è inaugurato il ponte Morandi, principale snodo autostradale (tramite il quale era possibile raggiungere il porto commerciale, i terminal dei traghetti e la A7 per Milano), che sovrastava il torrente Polcevera ed è presentato come un modello della moderna ingegneria.
È il maggio 2011 quando una relazione di Autostrade evidenzia un intenso degrado della struttura, in quanto sottoposta ad ingenti sollecitazioni. Dal 2009, del resto, si pensava alla “Gronda”, una struttura sostitutiva che evitasse di sovrastare i palazzi, come invece faceva il viadotto.
È il 2012, quando, durante un consiglio comunale, si odono parole che oggi, col senno di poi, pesano come macigni: “il ponte Morandi crollerà entro 10 anni”. Vale molto poco, ora la soddisfazione di avere avuto ragione. Ci sono situazioni in cui preferiresti avere torto, piuttosto che tristemente ragione.
Ci sono “predizioni” che non sono annunci di sventura, ma solo constatazioni dell’inevitabile, in assenza di adeguati interventi che vadano in senso contrario a quello degli eventi in corso.
Genova, come Longarone. Il Ponte Morandi, come il Vajont. In un popolo, smemorato come quello italico, vi sono tuttavia scene e nomi che ancora riportano alla memoria la disgrazia più atroce, nata non dal caso o dalla semplice ‘furia della natura’, bensì, soprattutto, dall’incuria e dalla corsa al profitto, quando queste sono premesse alla sicurezza della popolazione.
Sono le ore 11.50 del 14 agosto 2018, quando la terza campata e parte del tratto autostradale del ponte Morandi crollano, per un totale di circa 200 metri, percorsi, come ogni giorno, da auto, camion e altri veicoli. Decine le vittime ed i feriti di quella che, a tutti gli effetti, non può che essere definita, non solo tragedia evitabile, ma tragedia annunciata. Perché sia dalle immagini di diversi giorni fa che dai documenti comunali di diversi anni fa risulta evidente lo stato pietoso in cui versava il suddetto ponte, ben lungi dal soddisfare i criteri di sicurezza consoni a ritenerlo attraversabile.
Il seguito sono attimi di panico, seguiti dal terrore più sconcertante. Per chi è su quel ponte, è l’attesa di un volo di decine di metri. Pochi scampano, definendosi dei miracolati e tutt’ora incapaci di credere di essersi potuti salvare. I soccorritori trovano ben poco da fare: pochi sono i feriti, moltissime le vittime, che, spesso, ai loro occhi, appaiono in condizioni strazianti. Nonostante l’immediata allerta degli ospedali circostanti, i feriti che arrivano sono pochi e sempre meno, inondando gli addetti ai lavori di una sensazione d’impotenza.
Qualcuno, tra gli esperti di ingegneria, arriva a definirlo un ponte “più difficile da manutenere di quanto lo sia stato costruirlo”. E il parallelo con il disastro del Vajont diventa ancora più insistito e pungente, facendo quantomeno sorgere il dubbio che, qualche volta, elettrizzati all’idea di realizzare qualcosa che vada a sfidare le leggi della fisica e della meccanica, dimentichiamo che non si tratta solo di una sfida tra noi stessi e la natura e, quasi costruttori di una nuova Babele, dimentichiamo la sicurezza di chi utilizzerà la nostra opera.
Non tutti sono in malafede, ovviamente. Con ogni probabilità, la domanda-principe per verificarla è molto semplice: «Ci passeresti con la tua famiglia o saresti tranquillo se i tuoi familiari od amici ci passassero sopra?». La risposta a questa domanda – e gli eventuali tentennamenti – sono i più affidabili indici di buona fede di un costruttore o di un qualunque impiegato della pubblica sicurezza.
Difficile dare la colpa a Dio, di fronte a tragedie dove pare pressoché incontrovertibile che la responsabilità sia da ascrivere a negligenze ed inadempienze puramente umane.
La famosa foto del furgoncino verde, fermo a pochi passi di distanza dal ponte crollato, con le luci accese ed i tergicristalli ancora in funzione è diventata significativa ed emblematica e tutt’ora ci mette i brividi. Tanti bambini hanno paura dei ponti, per quel senso di vuoto e precarietà che trasmettono, indipendente dalla forma, dalle dimensioni e dal materiale di costruzioni. Quell’immagine concretizza le nostre paure più ancestrali e ci ricorda tutte quelle volte in cui la morte ci è passata a fianco e, per un soffio, l’abbiamo evitata. Ci ricorda la fragilità dell’esistenza umana e al mistero che soggiace il suo inizio e la sua conclusione. che, per chi crede, non è altro che momento di passaggio verso la vita autentica.           Tuttavia, colpisce che, dinnanzi a quest’immane tragedie, il primo urlo – lancinante – che affiora alla bocca dell’incredulo e sgomento spettatore sia proprio un reiterato e sconcertato “Oddio!”. Si rivela qualcosa di più di un’imprecazione, che cade nel vuoto dell’insensatezza. Pare quasi l’aggrapparsi, inconscio ed istintivo ad una Speranza, che possa riuscire nell’arduo intento di travalicare i confini della comprensione umana, che sul momento, non può che osservare, impietrita ed inerme, il compiersi di una “tragedia annunciata”.
Ora, la tragedia è immane, perché, oltre alle vittime e ai loro familiari, che è doveroso ricordare per primi, c’è una città spezzata in due, ci sono i collegamenti nazionali ed internazionali compromessi e danni economici, pubblici e privati, ingentissimi. Un’intera città è ora in ginocchio.
Una preghiera per le vittime e le loro famiglie ora nel dolore, quindi, ma tante sgorghino anche nei riguardi dei carnefici. Perché troppi guardavano con paura a questo ponte autostradale, da molto tempo ormai in bilico, perché ce ne si possa lavare le mani, senza darsi pensiero delle conseguenze di decisioni che – il tempo ed i fatti – hanno decretato errate ed imprudenti, fino al punto di portarsi via delle vite umane innocenti.


 Fonte immagine: Sky

Alcune fonti per approfondire:
Tg com
HuffingtonPost
Avvenire, Fulvio Fulvi
Avvenire, Marina Corradi
Il secolo XIX
Ingegneri.info (analisi)

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