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(Cara maestra) – «Ti conobbi quando, anche se non sembra vero, ero ancora un bambino. Ma ancora oggi il tuo nome evoca lontane nostalgie e vecchi ammaestramenti. Ti trovai appostata all’ombra del campanile, quel campanile che dettava il ritmo alla mungitura delle vacche, alla polenta delle massaie, alle orazioni del vecchio curato, alle partite a briscola del nonno all’osteria. Che schedava il lento vivere della gente di paese. Quel mattino tenevi lunghe gonne, un piglio severamente tenero, uno sguardo che ti mostrava bella. Anche se per me eri già tanto vecchia. Quasi come la mia nonna. Era stata una notte piena di lampi, ma all’avvicinarsi dell’alba ricordo le tacite stelle, come quelle del Pascoli poeta di cui mi parlasti anni dopo. Ci incontrammo in mezzo al cortile della nostra scuola elementare del paese: tu con la tua valigia seria, pesante, usurata dagli incontri. Io con la mia cartella colorata e vuota, lo sguardo insonne e quella vivacità che mi valse la simpatia e l’ansia del tuo sguardo.
Tu mi guardavi, io ti guardavo. Era il mio primo giorno di scuola.
Novelli pirati salpammo, in otto, in quella classe che tu amavi raffrontare ad una nave. Tu, skipper navigata. Sette marinai e un mozzo (io), quello che tenevi in classe non per merito ma per superamento di sopportazione. Ore e ore in tua compagnia. Tutti vestiti griffati. Io delle grandi firme conoscevo soltanto quella del nonno che sottoscriveva, per presa visione, le note dei tuoi colleghi dislocati in altre discipline scolastiche. Alla tua scuola imparai a scrivere, il nome mio e quello del paese, la data e il giorno: in stampatello, in corsivo, sempre più elegante. Con lettere che sembravano disegni d’alta architettura, tant’erano giganti ma che mi facevano sentire l’erede di un pittore famoso quando riuscivo a quadrarle, a tesserle tutte d’un fiato. Senza schiodare la penna per respirare. Tu, mentre leggevi brani famosi di autori famosi, riuscivi a coinvolgere. Trasmettevi: le poesie da imparare e la storia da memorizzare. Le opere d’arte da scrutare, i romanzi da leggere. E quelle tempestose mattine in cui, forse stanca dalle lunghe notti d’aggiornamento, t’affacciavi scura in volto, un po’ nervosa, schiva nella tenerezza. M’accorgevo di te, come tu di me.
Ma tu eri sempre la mia maestra. Di sera con mamma e papà); al mattino con te, nei pomeriggi in compagnia del nonno contadino e della nonna catechista. Mi sentivo sempre a casa, insomma: per tutto il giorno, per tutti i giorni a venire. Quel dieci sul quaderno, con quella grafia che tante volte cercai d’imitarti, era per me un cimelio preziosissimo. Lo barattavo con un giro in bici, con un’ora in più di corsa sul prato, con un gelato nelle afose estati paesane. Ci siamo frequentati quattro primavere e altrettanti inverni. Poi tu hai sposato madonna pensione, io ho tentato altri voli. Ma ben presto scoprii che il tuo viso m’era diventato ispiratore. Perché, per me, sapevi di bellezza, quella che mi avevi mostrato nella pittura e addestrato nel leggerla tra le righe. Eri “maestra”. E come tale m’hai presentato Dante, l’Ariosto, Leopardi e Manzoni. Eri anche donna. E sa donna m’hai addomesticato con la pazienza, l’eleganza, la dolcezza. Eri pur sempre madre: e al par delle madri amavi leggere i silenzi nel mio sguardo fuggitivo.
Era tanta la passione che t’animava che, ancor oggi, allo strillare di qualche campanella, m’alzo in piedi sull’attenti: sperando di vederti varcare la soglia di qualche porta. E vederti sederti in cattedra. Per insegnarmi l’eleganza del vivere.

P.S.: Hai visto che, laggiù nel mio penultimo banco a destra, dormivo solo per finta, cara la (mia) maestra?».

(M. Pozza, Penultima lucertola a destra, Marietti 2011)

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