wembley

A Londra, mi fido di chi li ha contati, ci sono 3000 pub. Domenica scorsa, mentre a Wembley lo stadio andava in ebollizione per poi cuocersi, non si trovava un posto libero (nei pub): “Tutto esaurito!” Nella stessa domenica, com’è di tante domeniche, nelle chiese di tutto il mondo c’erano invece un sacco di posti liberi. Stupiti? Noi, ultimi paladini della Chiesa trionfante, nel frattempo continuiamo a pensare che la causa del grande vuoto sia il monotesimo, i problemi teologici tra religioni diverse; il mondo, invece, ci sta dimostrando che il problema gli assomiglia solo per assonanza nel nome, ma nel contenuto gli è opposto: è il monotonoteismo il vero dramma delle nostre realtà ecclesiali. Quell'(in)capacità di generare nella gente il batticuore ch’è la realtà prima del Cristo: togliete a Dio l’allegrezza – direbbe Chesterton – cosa ci direbbe, resterebbe della sua Novella Buona? Ci sono attimi, che non si riescono più a misurare con l’orologio (“Quanto manca alla fine della messa?”, ndr) ma soltanto con i battiti del cuore: «Bussano – scrive Jacques Prévert – / Chi è / Nessuno / È solo il mio cuore che batte / Che batte forte forte / per te». È per questo, per una ragione di cuore, che è severamente vietato giocare con esso. Perchè il cuore, alla fine, ci batte. E palla al centro.
Assistendo alla finale ubriaca dell’Europeo di calcio, mi interrogavo sulla mia fede, sulla forza d’attrazione della sua testimonianza odierna: “Com’è, Marco, che questo stadio è zeppo – di gente felicissima, allegra, ironica – mentre le chiese sono diventate luoghi intasati di noia, di rassegnata devozione, di perpetui piagnistei? Il fatto di non essere più capaci di (ri)destare il cuore dell’uomo, di accendere quel punto infiammato che tanto appassionava il Pavese inquieto, segnalava, domenica scorsa, la differenza che c’è tra il Duomo vuoto della città e lo stadio strapieno di Wembley. Lì dentro, al netto delle differenze tra calcio e fede, il cuore (ri)batteva forte, il pallone diventava simbolo di riscossa, per tutto il tempo della partita sembrava che il mondo, la storia intera, avessero improvvisamente risolto tutti i loro problemi. Non è questo, forse, il segreto che dovrebbe abitare nella celebrazione dell’Eucaristia? Scordarsi, senza farlo, di tutti i problemi, andare da Cristo per ricaricare le batterie e, nel mentre si è lì, avvertire quel batticuore che ti dice: “Niente è ancora perduto, tutto è ancora da giocare. Non senti come batte forte il cuore nonostante le difficoltà?” La Chiesa, dallo sport e dalle arti che rendono più colorato l’umano, ha sempre una lezione a disposizione della quale far tesoro, anche per misurare la sua capacità di fascinazione: se non riesce ad accelerarti i battiti, non è la canzone giusta. Non è romanticismo, non è smanceria, è la realtà: l’uomo, la donna, sono alla disperata ricerca di un qualcosa, di un qualcuno che riesca nel difficile compito di tenere desta la loro speranza. Di tenere in tensione il cuore.
Eccola, non l’udite, la scusa magica da sacristia: “Ma la gente, prete, deve andare in Chiesa per Cristo, non per altro”. Come dare loro torto? È Cristo il (più) grande batticuore dei cuori. Nemmeno allo stadio, però, è sufficiente un pallone perchè il cuore batta: è necessario che qualcuno, con quel pallone, sappia partorire delle magie, (ri)accendere l’immaginazione, dimostrarti che con quella palla di cuoio ai piedi il mondo ti sembra addirittura diverso. La palla di cuoio, il Pane dell’eucaristia, la sostanza non muta d’aspetto: occorrono protagonisti capaci di (ri)mettersi in gioco. Sono stati i piedi di Federico Chiesa, gli scatti del Chiellini capitano-fuorioso, le manone di Donnaruma, la tranquillità di Jorginho a far sì che la palla diventasse cagione di batticuore! Fabio Caressa, commentando la partita su SkySport, s’è superato: “Sembra d’essere in birreria!” ha detto, come dire ch’era in corso un’ubriacatura generale. Mentre lo diceva, mi è balzato alla mente quel passaggio degli Atti degli Apostoli, all’indomani della prima Pentecoste. Il pubblico (non pagante), vedendo gli apostoli-batticuore ostaggio della gioia, «li deridevano e dicevano: “Si sono ubriacati di mosto» (At 2,13). Non era, allora, un problema di mosto ma di un Qualcuno che faceva battere forte il loro cuore, dopo i tramortimenti passati. “Dai, è solo una partita, non esageriamo, per cortesia!” dirà qualche rappresentante della diocesi di Penelope. Certo: si possono fare le cose a caso, si può anche fare caso alle cose, però. Perchè il monoteismo non sia (più) una scusa, di quelle che fanno tanto ridere per l’ingenuità: sarebbe come se Giovanni Bosco sentisse la Voce che lo chiama ma continuasse a starsene a pascolare le vacche in una sperduta cascina del Monferrato..

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