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L’Uomo è partito: ciò che resta, d’ora innanzi, sarà capire se quell’Uomo siA un folle oppure un santo. Lui, nel frattempo, dice d’essere Iddio: pressa il tempo e minaccia le fondamenta, alza i tappeti e fruga nei sottoscala, alza gli occhi e il mondo si illumina. “Quasi quasi mollo tutto e divento felice”: sono già molti che, dopo averlo ascoltato, giurano d’essersi incamminati dietro a Lui, alla disperata ricerca della felicità. Ha un esercito al seguito che quasi l’ostacola, «da tutta la Giudea, da Gerusalemme, dal litorale di Tiro, di Sidone». Tutta gente che a quel Rabbì chiede lumi circa la felicità. I vecchi maestri, a scuola, hanno chiesto loro cosa volessero diventare da grandi: “Essere felici”, scrissero i più. Li bocciarono, dicendo che non avevano capito il compito. Risposero che eran loro, maestri di improvvisazione, a non aver capito come s’accende la vita. Quando passò Lui, il richiamo fu assordante. S’arrestò improvviso, facendo di un pianoro la cattedra dalla quale pronunciare le parole, quelle per le quali Lui era venuto al mondo.
A Cana, Gli batterono tutti le mani: pareva avesse toccato l’apice mutando l’acqua in vino. Qui Gli misero a disposizione tutti i timpani quando avvertirono che stava mutando la povertà in ricchezza, le lacrime in gioia, che la terra stava per entrare in possesso dei miti, non dei bellicosi: la rivoluzione era arrivata. La folla era tutta in visibilio: la felicità era ciò che stava al cuore di tutti quei cuori. A chi non importa essere felice? «Ho commesso il peggior peccato che un uomo possa commettere – scrisse Luis Borges -: non sono stato felice». Al contrario, loro volevano sapere proprio quello: cos’avrebbero dovuto fare per diventarlo. E poi tentare la scalata alla felicità. Lui, accerchiato da centinaia di occhi che guardavano i suoi occhi, disse di chi sarebbe stata la felicità. Lo disse dicendo a chi sarebbe toccata quest’immane eredità chiamata Regno-dei-cieli: ai poveri, a quelli con la pancia vuota, ai lacrimosi, agli sgraditi. «Beati!» (cfr Lc 6,17-26) Disse ciò che la storia proprio non sopportava: che gli uomini feriti stavano diventando le feritoie attraverso le quali transitava il Regno di lassù. L’ha ammesso sin dall’inizio, nel modo degli onesti, in modo che nessuno abbia poi nulla da rinfacciargli: il Dio di Cristo ha un debole per la gente guasta, per le storie depresse, per le occhiaie smunte dal pianto. D’ora innanzi, date tempo al tempo, diventeranno cisterne di eternità. Faranno la ricchezza del nuovo popolo: «Se il PIL del mio paese non è elevato – disse un funzionario del Bhutan – la FIL (Felicità Interna Lorda) invece è più che soddisfacente». Sul pianoro, Cristo prese la storia sottobraccio, dal basso: la ribalta come fosse un carro di fieno. E tutto il mondo capì la pasta di cui era fatto il suo sogno: gli straccioni sarebbero diventati i terreni edificabili del Regno che si stava inaugurando quaggiù. La povertà incinta della ricchezza.
Quell’Uomo è così paradossale d’essere in eterno Paradosso: «È pazzo? Difatti è, rispetto agli uomini, uno stato di demenza, che pretende e otterrà dai suoi diletti» (F. Mauriac). Col sogno che nulla e nessuno si perda: «Guai» a voi con le tasche piene, la pancia gonfia, la risata sulle labbra, l’applauso sempre a filo di naso. Nessuna maledizione, state bene attenti: Cristo, a differenza di quel birbone di Lucifero, sa gioire della felicità dell’altro. Loro, invece, hanno il cuore-fogna a cielo aperto: “State in guardia, gente. Che non pensiate vi basti questo per ereditare Me, con il mio sogno di civiltà”. Eccolo il guai di Cristo: più carezza ai tempi supplementari che tentativo di malignità, lancio di un salvagente e non spintone verso il basso, avvisaglia e non condanna. Per tutti quelli che sono sul pianoro sono le parole del Cristo: le scrive tutte nella carne dei cuori, incidendo il marchio negli sguardi di chi le afferra. Da domani sarà quel che l’uomo vorrà. Resta un fatto, però: che l’insulto dei cattivi sarà la consacrazione dei buoni. Per un manifesto di così alta fattura, quell’Uomo non poteva che finire com’è finito.

(da Il Sussidiario, 16 febbraio 2019)

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne. 
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti» (Luca 6,17-26).

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