Da 39mila metri d’altezza la Terra è un punto terribilmente lontano: forse lassù la vertigine davvero non è “paura di cadere ma voglia di volare” come canta Jovanotti. A contemplarlo sulla soglia di una fragilissima capsula metallica era forte l’eco dell’epitaffio sportivo che la Gazzetta cantò in memoria di Patrick de Gayardon: “ci sono uomini che con le loro invenzioni hanno cambiato il nostro modo di vivere. Altri quello di sognare”. Felix Baumgartner per un istante ha tenuto tutti col fiato sospeso perchè morte e vita spesso s’incrociano laddove l’uomo si mette nudo di fronte allo spazio, al tempo, alla Vita. Storia di prodigiosi duelli, d’affascinanti battaglie, di portentose scintille divenute eroiche storie di avventurieri. O tristi epigrafi. Dalla polvere agli altari. O dagli altari alla polvere. Chi ha la fortuna di tornarci, decide di spendere il resto dei suoi giorni per cantare la bellezza del vivere.
Per oltre quattro minuti quell’uomo era simile ad un piccolissimo punto vagante nello spazio, come quei sassi di montagna che i bambini lanciano dal ciglio di un ponte per poi contare i secondi che impiegano a toccare terra. La sua non è una novità: del rischio – che nello sport non è mai improvvisazione ma sempre accuratezza massima dei particolari – ha fatto uno stile di vita. Forse che ogni uomo tiene nel cuore l’inquietudine di quell’Ulisse che da Itaca ogni volta si spingeva un po’ oltre per aprire nuove fessure nell’umanità: il tempo del distacco serviva all’eroe omerico per far fare un passo più in là all’uomo, mai sazio di conoscenza. Ma perchè l’uomo si spinge ad arrischiare la vita sfidando la morte? Alle ricche pietanze degli sponsor e alle citate motivazioni di ricerca spaziale forse sembra più credibile l’esigenza di dare voce a quella sete d’Infinito che aleggia dentro l’animo umano. Perchè spingersi lassù, dove l’uomo avverte la sua nullità al cospetto degli astri e dello spazio, è speranza di tornare quaggiù con una più accesa nostalgia della vita. La liturgia d’inginocchiarsi e di baciare la terra appena dopo averla lambita è stato il gesto commovente di un uomo che, dopo averla sfidata, non trova di meglio che abbracciarla e stringerla forte a sé, con rinnovata freschezza.
Gli hanno chiesto che cosa si provi a tuffarsi dal trampolino dell’Universo. Una domanda che tradisce un sospetto: che quell’abisso, pur togliendoci il fiato, un po’ c’interpelli e c’affascini. La sua risposta è stata lapidaria: “quando sei lì in piedi in cima al mondo, diventi così umile che non pensi più a battere record. L’unica cosa che vuoi, è di tornare vivo”. E’ sempre la vita il primo e l’ultimo pensiero, la cornice dalla bellezza fugace e mortale nella quale ogni volta incastrare le nostre fotografie. Quella vita che a qualcuno – magari lontano parente di quell’Ulisse omerico – ha sussurrato un pensiero: non ci può essere fedeltà senza rischio. Quella voglia di vivere che un giorno t’inabissa nel cuore l’idea di accarezzare l’estremo fin quasi a sfidarlo per celebrare la grandezza dell’uomo: “in tutti noi c’è una forza che ci spinge a non riposarci mai, fino a quando non possiamo andare un po’ più in là” – ha dichiarato citando Jean Piccard, esploratore di abissi oceanici.
C’è un’ansia che accomuna esploratori e naviganti, arrampicatori e naufraghi, timonieri e viaggiatori, santi e delinquenti: è quell’istinto micidiale ad andare oltre, un passo più in là, un centimetro dopo. E’ una voce forte, incuneata nelle profondità dell’umano. E’ stata la vera conquista di quest’uomo volante: “a volte bisogna andare veramente in alto, per capire quanto siamo piccoli”. Con buona pace del Piccolo Principe stavolta l’essenziale s’è mostrato proprio davanti agli occhi: non la sfida fine a se stessa, ma l’umile riconoscimento della propria piccolezza. Che è d’invisibile bellezza.
(da Il Mattino di Padova, 21 ottobre 2012)