Per telefono la domanda è stata così fine che, quando l’ho capita nella sua ironia, non mi è parsa affatto villana, bensì il riflesso di un pensiero intelligente: “Hai sentito il discorso del Papa stamattina?” La mattina era quella di venerdì, il giorno di Auschwitz e di Birkenau, del concentrare per sterminare una razza. Quel discorso non è stata una questione di udito: non c’è stato nessuna parola da ascoltare, dal momento che Francesco ha sposato l’azzardo del silenzio: «Il silenzio è una delle grandi arti della conversazione» (W. Hazlitt). Il suo primo discorso senza parole, forse quello che avrebbe fatto battere il cuore al principe e alla volpe di Antoine de Saint-Exupéry: le parole, certi giorni, rimangono una sgradevole fonte di malintesi. Lui, con passi taciturni e barcollanti, ha scelto di tacere, fin quasi a portare il mondo dentro il suo silenzio. Loro, la folla giovane della GMG, l’ha seguito col cuore, sfiorandolo con lo sguardo. Uniti da una domanda ch’è stata il preludio del loro dialogo di queste giornate di festosa preghiera: «Vuoi una vita piena? Comincia con il lasciarti commuovere».
Per chi la guarda dall’elicottero, questa ciurma colorata di gente può apparire simile ad un concentrato rischioso d’emozione. Un incrocio confuso di volti, un meeting sconclusionato di giovani venuti da chissà dove, alla ricerca di un qualcosa al quale, siccome forse non sanno nemmeno loro che nome dare, accettano di dare il nome datogli da chi presta loro la voce, certe volte pure i passi per spingersi sul confine, ai bordi: «Volete per la vostra vita quella vertigine alienante o la forza della grazia che vi faccia sentire pieni?». Questo è l’Israele-giovane di Francesco: davanti ai loro occhi c’è un mare d’incognite d’attraversare, appena oltre s’intravede un deserto popolato di terrore, ancora non sanno che una colonna di nubi farà loro da bussola nel cammino. Ciò che sanno – che il viaggio valga la pena di percorrerlo – è quel poco che basta per trovare il coraggio di mettersi in cammino. Dai posti più disparati, con le loro bandiere in mano, resi forti dagli stendardi che ogni nazione innalza: sono i volti dei loro santi, di gente che ce l’ha fatta ad attraversare l’inferno senza diventare inferno, di storie che mostrano come le cose possono cambiare – stanno già cambiando – se solo qualcuno trova il coraggio d’iniziare. A loro s’affidano, con loro anche si confidano, di loro molti si fidano. Di ciò che qualcuno dice loro – «Ragazzi vivete, non vivacchiate!» (P. Frassati) – ne intuiscono immediata la portata. Un giorno ne assaporeranno pure il gusto, l’hanno già dimostrato.
Somigliano tantissimo ai pesci i ragazzi delle giornate mondiali della gioventù. Il pesce deve respirare l’aria attraverso l’acqua: qualora andasse alla ricerca dell’aria abbandonando l’acqua, certamente morirebbe. Il sogno del pesce si chiama aria, la necessità del pesce si chiama acqua: la vita del pesce si chiama aria-nell’acqua. Questi giovani arrivano a Dio solo se terranno i piedi ben piantati nel caos della storia, lo sguardo nell’orizzonte del Cielo: mancasse anche solo una di queste due prospettive, il loro ritrovarsi porterebbe i connotati fragili di un’utopia non capace di reggere gli sconquassi imprevedibili di un tempo assai ostico da decifrare senza la compagnia di qualcuno che ci metta una spalla a disposizione. Che ci ospiti nello sguardo di un Dio che, lungi dall’essere dispettoso, ha fatto di una storia qualunque il banco-di-prova della sua verità: a Lui, solo attraverso i fratelli.
Stanotte inizieranno le operazioni di rientro. Ancora una volta qualcuno li attenderà al varco per chiedere loro quale canna-sbattuta-dal-vento sono andati ad incontrare a Cracovia. Ancora una volta la risposta sarà, forse, un sorriso: quello di chi ha veduto coi suoi occhi l’Inferno e ha avuto nostalgia del Cielo.
(da Il Mattino di Padova, 31 luglio 2016)