Il 4 settembre prossimo – in pieno Anno Straordinario della Misericordia – la Chiesa non farà nulla d’eccezionale: semplicemente renderà manifesto ciò che da sempre il popolo già crede, riconoscendo lo status di “santa” ad Anjezë Gonxhe Bojaxhiu (1910-1997), una mingherlina suora d’Albania meglio nota al mondo col nome di Teresa di Calcutta. Una storia che, nella sua fanciullesca bellezza, è patrimonio mondiale dell’umanità. Bellezza che s’annuncia nel nome stesso da lei scelto: Teresa. Un giorno confessò che quando lo scelse, non pensava a quello della grande Teresa d’Avila, ma a quello della piccola Teresa, di Lisieux: la santa della “piccola via”, ossia della convinzione che la santità non va ricercata nelle grandi azioni, ma negli atti quotidiani apparentemente più insignificanti. A condizione di compierli per amore di Dio: «Passerò il mio Cielo a fare del bene sulla terra – scriveva la mistica di Lisieux -. Farò scendere una pioggia di rose». Scelto il nome, col Cielo scelse anche la sua destinazione d’uso: Calcutta. Nulla di roboante in quella città, nulla di metropolitano in quella periferia, nulla di celebre: una città di odori, di quartieri putridi, di storie miserevoli. Teresa-di-Calcutta, tutto attaccato: ci sono nomi che si capiscono solo se li si tiene cuciti ai luoghi in cui hanno scelto di diventare tali. Come Gesù di Nazareth, Francesco d’Assisi, Martino di Tour, Caterina da Siena.
Per scalare le cime celesti, Teresa scelse di partire dagli acquitrini dei poveri. Che, per chi se ne intende di logiche divine, è l’esatto opposto del punto di partenza più favorevole: i poveri denudano, sfibrano, tallonano. Mettono a dura prova, la loro insistenza pare persino fastidiosa, la loro angustia ha un che d’insopportabile, d’irritabile. E’ il punto di partenza più azzardato per diventare santi: non basta la parola “povero” per vantare crediti in faccia alla santità. E’ una parolina che somiglia tantissimo ad una prima-donna, ambiziosa quanto basta, quasi maniacale nel correggere la grammatica. Prendete, per esempio, l’uso delle preposizioni. Un conto è “parlare dei poveri”, tutt’altra cosa è “parlare coi poveri”: è una semplice preposizione di differenza, ma è l’intera prospettiva che cambia. Oppure prendete i verbi, la sfida appare ancor più delicata: il verbo che meglio s’addice loro è il verbo “servire”. Anche qui, però, i poveri hanno il palato dei buongustai: un conto è “servire i poveri”, altra cosa è “servirsi dei poveri”. E’ il medesimo verbo, cambia seriamente la forma: cambia drasticamente tutto il contenuto, il senso stesso di un gesto. Eccolo il motivo per cui, nel tentativo di diventare santi, partire dai poveri è giocare d’azzardo: la carne ferita ha il fiuto del cane per il tartufo. Sfidarla è rischiare le scottature.
Era dannatamente piccola Teresa, eppur i giganti le tributavano rispetto, in fondo pure la temevano assai. Non potendo far valere l’intelligenza di chi sa usare le parole a menadito, dimostrò di conoscere giusto quelle poche parole delle quali il mondo necessitava: «Le parole gentili sono brevi e facili da dire, ma la loro eco è eterna» amava ripetere alle consorelle la matita-di-Calcutta. Di Dio e dei suoi misteri, poi, ne fece un affare-di-cuore: «Io lo guardo, lui mi guarda. Ecco la mia preghiera». Rimase ancorata a Lui con lo sguardo anche nell’attimo in cui l’Amore sembrò averla abbindolata: mica un “torno fra cinque minuti”, ma decenni di “silenzio di Dio”. D’oscurità atroce: a dar retta ai santi, chi non ha mai sperimentato l’oscurità di Dio mai potrà dire d’aver conosciuto il Dio ch’è veramente Dio. Quello che, privilegiandoti dell’odore dei poveracci, t’allena alla serietà dell’amore. Perchè fare il bene, come pensano in tanti, certe volte non basta, non serve. Il bene va fatto bene, per non tramutarsi in male. Per non rischiare di confondere l’abat-jour col sole, una cella di galera con il mondo.
(da Il Mattino di Padova, 20 marzo 2016)