Come uno splendido manifesto elettorale. Anzi: come il più speranzoso dei programmi umanizzanti. Perchè mette al centro l’uomo nelle sue povertà con il sogno di far diventare quella vita diversa da quella che oggi è. Questa domenica Gesù Cristo è a Nazareth, dentro quella sinagoga dove tantissime volte avevano udito quelle parole: eppure oggi quelle che fino a ieri somigliavano a delle foglie accartocciate, sono simili a frecce appuntite che trafiggono il quieto vivere della vita di Nazareth. Dentro quella sinagoga oggi l’umanità ferita riprende il suo cammino e torna a sperare in giorni migliori, dove anche il povero possa spendersi per grandi ideali.
Forse un suggerimento discreto – di quella discrezione che nel Vangelo è sinonimo di serietà assoluta verso Dio – in questi mesi di dibattiti in vista delle elezioni dove l’uomo, sopratutto l’uomo vestito di povertà, campeggia al centro verbale di ogni interesse. Mai come in occasioni di votazioni – fossero anche quelle che decidono la responsabilità più piccola in qualsiasi campo dell’esistenza – la figura del povero torna in primo piano. Con la malinconia di vedere usati dei luoghi dentro i quali la sofferenza è da tantissimo tempo un alfabeto che la gente declina: un dormitorio pubblico, un treno stipato, una mensa popolare, una casa che una famiglia deve abbandonare, un carcere nel quale la gente deve espiare una pena. Sono luoghi di difficile interpretazione perchè lì dentro abita l’uomo nelle sue mille contraddizioni e fragilità. Stare dalla parte dell’uomo povero – come nella sinagoga di Nazareth – è sedersi accanto a lui e offrirgli motivi di speranza più che vane illusioni, provare compassione delle sue infermità più che un semplice pietismo, scendere nelle sue solitudini e accendere un frammento di spiritualità dentro il suo vagare. In caso contrario più che servire il povero ci si serve del povero: ma questo è giocare al cristianesimo e non giocarsi dentro il cristianesimo. Perchè più che essere una morale il cristianesimo è una sconvolgente liberazione: forse per questo del Vangelo non devono temere i peccatori ma coloro che pensano di aver già strappato una mezza promessa di salvezza. Dio sta dalla parte dei poveri: la liturgia di questa domenica ce lo ricorda, qualora ce ne fosse bisogno. E, in calce, è come se avvisasse: “giù le mani dai poveri!” Il loro volto è ambito sotto elezioni, le loro storie inteneriscono le catechiste, il loro gemito finanzia tantissimi progetti. Potremmo quasi dire che il povero è un volto che fa notizia e stare dalla sua parte, in certe occasioni, assicura share e notorietà. Oltrechè stima e posizione in certi ambiti della società.
Quando si vive nella povertà e a contatto con la povertà, i cinque sensi s’affinano e s’impara a discernere la compassione dalla misericordia, la visibilità dall’interesse, il fine dai mezzi. Perchè nascere o diventare poveri è un complicarsi la vita; ma è anche un imparare a declinare l’umano scrutando i piccoli particolari delle cose. Finanche dei gesti d’amore. In vista delle elezioni politiche c’è pochissima traccia di loro nelle “agende”, pure del mondo del carcere e del bacino di famiglie che lo circonda: eppure sono una grossa fetta d’Italia che basterebbe poco per intercettare e iniziare a leggere le loro povertà. Le passerelle pre-elettorali, le visite-show, le grandi luci delle telecamere quando poi se ne vanno lasciano l’amara sensazione d’essere stati derubati anche dell’ultima ricchezza che s’aveva in tasca: la dignità di essere poveri.
Perchè il povero non è un aquilone col quale far giocare i bambini tenendolo per uno spago ma un’aquila ferita alla quale insegnare a volare. Contemplando in disparte la traiettoria di un nuovo volo.
(da Il Mattino di Padova, 27 gennaio 2013)