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E tu come stai? E ti capita mai di stare fermo senza respirare. Per vedere com’è il mondo senza di te, per sapere se esiste qualcuno che ti viene a cercare perché a te ci tiene… Per gridarti: “Io ti voglio bene” (Jovanotti).

Andava in macchina ad alto volume e mi si è stagliata davanti agli occhi l’immagine di Giuseppe (nome di fantasia) e di tutta la vicenda che da giorni stiamo vivendo in una delle classi dove insegno.
A 16 anni, una bravata non sempre ha il peso che l’adulto le attribuisce. A 16 anni, è tutto più frizzante, giocoso, soprattutto se in classe con te convivono altri 20 adolescenti maschi. A 16 anni, è davvero difficile restare in piedi, davanti a tutti i presunti amici, sotto accusa, a chiedere “scusa” per qualcosa di cui ancora non se ne ha ben capito l’entità. A 16 anni, l’orgoglio già brucia dentro, il senso della “propria” giustizia pervade l’essere, e, forse, ancora non è chiaro che i gesti, le parole, le foto pubblicate, possono avere delle conseguenze. Non sempre, a 16 anni, è chiaro da che parte stare, come starci.

La ricerca del “vero me stesso” è appena cominciata e i lavori in corso sono quotidiani. Dante, appena entrato all’Inferno, insegna che la schiera dei pusillanimi, quelli che un adolescente definirebbe in modo molto più immediato “i senza attributi”, non è così lontana dalla vita, dalla realtà.
Quando ci si trova spalle al muro, in una situazione complicata, si ha paura di prendere posizione, di dire la verità, di assumersi le responsabilità delle proprie azioni. Quanto costa dire la verità, quanto costa guardarsi allo specchio e rendersi conto che proprio quell’immagine riflessa ha compiuto atti che hanno provocato dolore e ferite, sebbene senza reale intenzione! Forse, si teme che anche i propri genitori inizino a guardarci con occhi diversi, delusi, da noi. Forse, si ha paura che anche i prof sentenzino in modo definitivo sulla carriera scolastica o sulla persona. Forse, si teme che ogni relazione venga compromessa se si ammettesse pubblicamente la propria parte di colpa, per quanto la si possa ritenere ingiusta. Sono stati giorni in cui, probabilmente, anche Giuseppe, ha sperato con ogni parte di sé che qualcuno venisse semplicemente a cercarlo, a guardarlo e gli dicesse “io ti voglio bene”. Qualcuno che punisse l’errore ma non la persona. Come Pietro, quella notte, in quella oscurità, nel sinedrio, dopo aver rinnegato e tradito 3 volte l’Amore, proprio quell’Amore che lo guardò, lo penetrò col suo affetto fino nelle viscere.

Io non lo so se la strada che, come professori, abbiamo proposto a Giuseppe per ripartire sia stata la migliore per lui, però, posso assicurare che ce l’abbiamo messa tutta perché potesse sentirsi, innanzitutto, guardato, cercato e voluto bene.

 

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