Come celle senza chiavi nella serratura: perchè l’uomo deve marcire senza possibilità alcuna di riscatto. Nonostante avessero puntato tutto sulla sicurezza e sulla moralità – entrambi ampiamente disattesi – la politica veneta per bocca del suo governatore Luca Zaia s’indispettisce della condanna a “soli” sedici anni per l’assassino di Federica Squarise, tornando a cavalcare l’onda della chiave da gettare nel mare per tentare di riagguantare credito sull’elettorato. C’è un modo di uccidere che è penalmente colpevole, ma c’è anche un modo di uccidere che è doppiamente colpevole: quello di cavalcare una pagina triste di storia per farsi belli di fronte ad una popolazione esausta.
Chi si sforza dentro le carceri di comprendere il male senza giustificarlo, percepisce la responsabilità per la memoria di una ragazza violentata e ammazzata e non tenta in nessun modo di alleggerire la responsabilità dell’uccisore. Avverte, però, al tempo stesso il bisogno di recuperare chi del sangue e della violenza ha fatto il suo alfabeto in quegli istanti: è il popolo del volontariato il cui lavoro il governatore veneto sembra giudicare inutile. Forse per questo la “chiave” che Zaia vorrebbe buttare in mare è proprio quella chiave che serve per entrare dentro la cella dell’anima di chi ha ucciso e cercare di comprendere il motivo, di fare luce su un’atrocità, di chiedere tempo per fare spazio all’umano. La chiave nel mare – ennesimo possibile titolo della saga leghista dopo quello dei fucili nelle montagne – mostra un grosso fraintendimento in atto: che basti un carcere in una città per rendere tutti più sicuri. E offusca la comprensione di cosa succede spesso dentro il ventre delle galere: la condanna non riesce ad accendere nulla nell’uomo colpevole, il perdono sovente riesce a ribaltare e scombussolare anche il criminale più efferato, facendolo sentire disarmato di fronte alla forza dirompente della bontà.
Mesi fa s’era arrabbiato il buon Zaia perchè ci sarebbe voluto un ergastolo per l’uccisore: peccato che in Spagna questa pena sia già stata cancellata da tempo. In carcere la sua affermazione fece ridere perchè denotò mancanza di informazione su un tema delicato e spinoso. Oggi la domanda che lancia ai giudici spagnoli è ancor più scioccante: “se non rimane in carcere dopo aver rapito, ucciso e stuprato una persona, che cosa mai bisogna fare perchè si buttino via le chiavi della cella dopo aver arrestato un rapitore, uno stupratore e un assassino”. Come a chiedere lumi sulla modalità più schifosa per far marcire un uomo dopo il suo errore. Eppure quelle radici cristiane alle quali il suo partito cerca invano di appellarsi parlano chiaro: l’uomo non è solo il suo errore e nessuno potrà avvalersi dello sbaglio fatto da Caino per scagliarsi contro di lui: sta scritto nelle prime pagine della Bibbia. Gettare la chiave nel mare non risolve il problema: semplicemente abbruttisce l’uomo e i suoi simili. E’ solo rimanendo a contatto con il bene che l’uomo può provare vergogna del male compiuto, prenderne le distanze e ritentare la difficile risalita verso un’umanità diversa. Ha ragione Zaia: in carcere esistono gli uomini malvagi. Forse non sa, però, che gli uomini tristi sono di gran lunga in numero maggiore e sono loro a sovraffollare quelle carceri che il suo governo visita solo in campagna elettorale. Per questo alla domanda posta ai giudici avrebbe fatto più onore un suo silenzio composto e dignitoso, sopratutto dopo la gaffe dell’ergastolo: i ragionamenti di pancia ingrassano solo l’uomo dell’osteria con la sua grammatica zeppa di luogocomunismo.
Al Carcere Due Palazzi di Padova lo aspettiamo, anonimo e fuori campagna elettorale: vorremmo offrirgli una prospettiva diversa per leggere la storia dell’uomo dall’altra parte. A celle spalancate e senza paura.
La risposta di Luca Zaia: “Caro don Marco, lei mi ha stupito con tanta cattiveria”(Il Mattino di Padova, 30 luglio 2012)
La replica della Diocesi di Padova: “Detenuti sepolti in cella? Io dico no” di don Marco Cagol (Il Mattino di Padova, 1 agosto 2012)