Dietro la sbarre ci abitano uomini con un passaporto di ferro e cemento; e tanti anni da scontare nel ventre di una patria galera. Il loro è un paese “ingabbiato” dal nome strano: Casa di Reclusione Due Palazzi. Siamo alla periferia della città di Padova, fuori dalle sue mura: i lupi devono vivere nella foresta. Eppure se scrutati nel volto lupi non lo sono. O, perlomeno, non lo sono sempre stati. Magari non lo saranno più. Sono “avanzi di galera” dentro i quali batte ancora un fremito di vita.
In questo paese strano il quartiere si chiama “sezione”, i monolocali si chiamano “celle” e il sogno più bello si chiama “libertà”. Dietro ogni numero di matricola c’è una storia: spenta, appassita, frastagliata e frastornata, ferita e minacciosa. Dietro ogni storia c’è un uomo che vive, o tutt’al più sopravvive. Anche in carcere stamattina è Natale.
“Buon Natale”. Suona strano quest’augurio dietro le sbarre.
Cristo è nato: punto e a capo. Sembrerà anche strano stringersi la mano dietro le sbarre – ci confida G, 43 anni -, eppure anche per noi un Bambino è nato. E per alcuni di noi è rimasto l’ultimo Volto al quale aggrapparsi per non smarrire la speranza nelle nostre vite. L’Unico che possa entrare e uscire senza tutta la trafila di permessi. E questo, mi creda, non è poco per chi come me nella vita ha fallito il bersaglio perdendo il tutto che aveva.
Sotto l’albero di Natale i bambini sognano di trovare sorprese gradite. Qual’è il regalo che ogni detenuto sognerebbe di trovare la notte di Natale?
Qualcuno potrebbe pensare alla libertà come al dono più ricercato – spiega L., 65 anni -. Il regalo più bello, che per me equivarrebbe ad un sogno, sarebbe invece la possibilità di non essere più il “fermo immagine” che tutti ricordano ma una persona che, dopo aver scontato la pena fino in fondo, ha il diritto di ripartire. Per riassaporare le piccole cose della vita.
Chi spera vive, chi dispera è a rischio d’estinzione. Che effetto fa il termine “speranza” qui dentro?
La speranza nasce dal fondo dell’abisso, come l’alba sorge nel profondo della notte – riflette A., parecchi Natali passati qui -. Se sono ergastolano e di me c’è scritto “fine pena mai”, ecco che può esplodere la bellezza dell’uomo: sei senza futuro, eppure un futuro lo devi per forza tentare. La salita è durissima, ma noi ce la faremo. Siamo come delle anatre: sopra l’acqua sembrano andare lentissime ma sotto con le zampette fanno un gran lavoro, pur non dandolo a vedere. Il carcere è un concentrato di domande: una mattina potresti pure trovare una risposta. Lavoriamo per farci trovare pronti all’appuntamento. Almeno stavolta.
“Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. Stavolta il proverbio s’inceppa.
S’inceppano i proverbi perchè s’inceppa la vita – riflette D., 36 anni -. Qui dentro tutto è illogico, come forse lo siamo stati parecchi di noi nel passato. Eppure dentro questa illogicità oggi è festa. E ci basterà poco per far festa: una fetta di dolce, un brindisi in cella o forse anche solo sapere che per qualcuno siamo ancora uomini. Natale serve anche per questo: ricordarci che il nostro cuore batte con gli stessi battiti di quello degli uomini liberi.
“Oggi è nato per voi il Salvatore”. Forse occorrerebbe ricordarsi più spesso che Dio continua a nascere anche dentro le galere.
Questo è un paese strano – ci confessa G., uno dei veterani – dove il Natale non capita solo una volta all’anno: ogni volta che nasce un piccolo gesto di bontà pensiamo che poi non è tutto così male dentro di noi. La prima domenica d’Avvento abbiamo partecipato anche noi al Banco Solidale per le famiglie in difficoltà: quasi 400 kg di generi alimentari sono partiti dalle nostre celle per destinazioni a noi sconosciute. Qualcuno di noi adotta dei bambini a distanza. C’è chi dipinge quadri e devolve il ricavato in beneficenza. Eppoi c’è chi soffre come un cane e non molla la speranza: qui dentro Natale significa credere che l’uomo è capace di tutto, anche delle più inaspettate riprese. Anche questo è il carcere: scrivetelo!
Il carcere l’hanno spostato in periferia: metafora bella della postazione riservata ai perdenti. Per di più le celle dovrebbero essere chiuse e le chiavi gettate in mare.
La storia dell’uomo la scrivono i vincitori – riflette G., 39 anni – quella di Dio l’hanno scritta i perdenti. Dal primo momento in cui sono entrato mi sono imposto di non fare la vittima: chiedo semplicemente di pagare la pena giusta nella maniera giusta. Ho sbagliato e sto pagando, pur sapendo che nessuna pena potrà mai farmi accettare il male commesso. Sono uno di quelli che non avrebbe voluto che quest’anno arrivasse Natale. Oggi è una giornata dura.
Il rumore delle chiavi, lo strillare dei gabbiani, il cigolìo dei cancelli: il carcere è una confusa “sala d’aspetto”. Eppure qui si studia e si riflette.
In biblioteca c’è una scritta: “una mente che si coltiva trova sorgenti inesauribili in tutto ciò che ci circonda”. La mia fortuna – ci spiega P., 37 anni – è la passione per la lettura. Per me leggere diventa la possibilità di entrare dentro un mondo diverso da quello che mi circonda e poter immaginare un altro modo di essere uomo. E’ fatica riaccendere il pensiero dopo anni di risorse sprecate. Guardiamo al positivo: adesso fatico il doppio ma trovo un doppio sapore in ciò che prima era insignificante.
Il profumo dei panettoni, l’arte dei maestri pasticceri, l’orgoglio di sentirsi protagonisti di un riscatto sociale. Il carcere è anche un paese che lavora.
Come dice il nostro cappellano: “le mani che prima hanno ferito adesso impastano la dolcezza”. Mi ritengo una persona fortunata – ammette F., lavorante presso la “Cooperativa Giotto” -: ho un lavoro, mi sento vivo e protagonista di un’avventura umana che mi sta risanando. Dentro un mondo di ferro e cemento qualcuno mi ha dato la possibilità di rialzarmi. Come diceva Guareschi, il mio scrittore preferito: “L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda solo il Padre Eterno”. Lui lo disse durante l’esperienza del lager. Io lo ribadisco nel tempo della galera. E’ questo per me il Natale.
Domenica scorsa il Papa è entrato nel Carcere di Rebibbia: simbolicamente è come fosse entrato in tutte le carceri d’Italia.
Questo Papa è un rivoluzionario – dice R., ergastolano -, l’unica persona che possa smuovere oggi le coscienze degli uomini che comandano. L’ho visto in televisione e quando ha detto – rispondendo alla domanda di un detenuto – “anch’io ti voglio bene” ha ricordato al mondo che l’uomo si rieduca solamente amandolo. Siamo uomini difficili da amare e forse proprio per questo siamo i più bisognosi di amore.
Un augurio alla città di Padova. Per tanti di voi rimarrà, nel bene e nel male, una “città d’adozione”.
E’ una poesia nata e scritta nel binario morto della mia sezione – ci confida A., ergastolano ed ex-analfabeta: “Da trascorrere sono così lunghe le ore / che al mattino son pieno di dolore. / Anche se le mie ossa son così stanche / e i miei capelli son diventati bianchi / da lungo tempo aspetto il mio destino, / con speranza attendo l’amato mattino / porgermi la mano solare. / Così l’animo mio torna a sperare”.
La chiave chiude il blindato e l’agente si lascia scappare un sorriso: “despondere spem munus nostrum” (“diffondere la speranza è il nostro compito”) è il motto della Polizia Penitenziaria. Forse oggi a qualcuno scapperà pure una stretta di mano: quando ti è tolto tutto, basta poco per far festa. Sullo stipite della sezione qualcuno ha scarabocchiato una frase. E’ di Cicerone: “la libertà soppressa e poi riconquistata è più dolce della libertà mai messa in pericolo”.
E’ la speranza che non morirà mai. Nonostante tutto.
(da Il Mattino di Padova, 27 dicembre 2011)