Sono barconi che affondano nel mare: inghiottiti nelle fauci rapaci di un cimitero d’acque e di disperate concitazioni. Di trafficanti di speranza e di bramosia. Barconi e numeri, quelli che non dicono più nulla all’immaginario collettivo: settecento oggi, quattrocento ieri, trecento dopodomani. Scafisti, cadaveri, traffico nei mari. Barconi, numeri e persone: «Sono uomini come noi», ha sottolineato domenica scorsa papa Francesco. Lui, figlio di emigranti piemontesi: Lui così ascoltato quando dice cose che piacciono, così osteggiato quando addita l’imbarazzo dell’amore, Lui così tirato per le vesti quando lo si vorrebbe veder fare “opera di tappezzeria” con i potenti, come i più squallidi tra gli amanti, quelli senza verve e senza carattere. «Come noi», disse: più un tocco di profezia o un rintocco di memoria? A ben pensarci, tanti di noi – e chi scrive tra loro – se solo avessero il coraggio di risalire, come dei salmoni, la corrente dei propri alberi genealogici, scoprirebbero d’essere figli e nipoti di gente salpata, tempi addietro, verso terre lontane, nel mezzo di emigrazioni e immigrazioni che avvengono sempre allo stesso modo. Genealogie che sono incroci di sangui e di culture, di spazi e di prospettive, di partenze certe e di ritorni appesi ai fragili fili della buona sorte. «Come noi», allo stesso modo, probabilmente con lo stesso fastidio cucito addosso di chi, ieri come oggi, si trova a fronteggiare il diverso, lo straniero, l’unione nella differenza.
La storia racconta e protegge. A volte è tremendamente d’impaccio: «Generalmente sono di piccola statura, di pelle scura, non amano l’acqua e molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane; si costruiscono baracche di legno nelle periferie delle città dove vivono gli uni vicino agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti, fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che sono dediti al furto e che, ostacolati, diventano violenti». Che stiano parlando degli abitanti del Ghana, degli scappati da Aleppo o dei nigeriani in fuga dalla gola furiosa di un assassino come Boko Haram? La risposta è molto più semplice: somiglia a quell’alito cattivo – per usare un’immagine colorita del Papa figlio di emigranti – che, per averne consapevolezza, si necessita di qualcuno che te lo faccia notare. E’ l’alito cattivo di una memoria, perchè quella relazione non parla di profughi di oggi ma degli italiani dei primi anni del Novecento: è la relazione al Congresso americano per l’Ispettorato per l’immigrazione stilata nel 1912 per dare un’idea di chi fossero questi uomini italici così puzzolenti e dal forte accento dialettale. La storia è un grembo materno: c’è traccia anche di ciò che, abortito, si vorrebbe far scomparire dalla memoria stessa.
“Quando sei partito sapevi che forse potevi anche morire in mare” ho chiesto ad uno di loro tra i binari confusi di una stazione ferroviaria. La sua risposta è stata riprendere una parola della mia domanda: “Forse”. Laggiù era sicura la morte, il mare porgeva il forse della vita. Le migrazioni degli animali sono uno dei più grandi spettacoli della Natura, l’annuncio della primavera: qualcuno di loro, però, inzuppa l’aria di odore, mangia le nostre erbe, dorme nelle nostre montagne. Perchè non potremmo mettere una barriera al cielo per costringerli a stare nelle loro terre natìe? Oppure nessuno è ancora riuscito a rinchiudere la primavera in uno sgabuzzino? Lo si vorrebbe fare degli uomini: perchè puzzano e son violenti. Dicevano esattamente così anche degli Italiani.