Alla fine, per finire, ha fatto i conti: ha voluto che fossero fatti tutti i conti. E, sommato tutto, tutto sommato, capì che ciò che aveva fatto fino allora non era il minimo sufficiente: “Perché non si scomodassero, sono andato a casa loro, li ho presi per mano, li ho allevati come si alleva l’amore primogenito. Eran in quattro a Tiberiade, quattro pescatori di numero: li ho fatti diventare una comunità, il più invidiato gruppo d’assaltatori della storia. Ho aperto loro la strada, ho detto loro di non fare null’altro che quello che avevo insegnato, mi son fatto in quattro per dar loro un indirizzo. Eppure non basta!” Questo, più o meno, fu il ragionare del Cristo, Figlio di Dio, nell’ultima cena. Sciacquò loro pure l’alluce, il mignolo, tutte le dita dei piedi: “Più in basso di così, non potrà andare. Già mi è di scandalo”, è PietroSimone a bisbigliarlo. Il Cristo dell’Ultima Cena è un re che ha abdicato il potere nelle mani dei suoi sudditi. Poi, d’un tratto, ancora giù, più giù dei piedi, in fondo alla pancia: «Prendete (e mangiate), questo è il mio corpo». Non solo il pavimento, anche lo stomaco degli amici va a santificare: il Re, d’allora, è il Re che si fa mangiare, masticare, deglutire. Dio-tascabile, l’uomo è tabernacolo ma tutt’ora, sovente, non vuol saperlo d’essere. Dio, invece, continua: “Mangiami!”
Prova a dire, d’allora, che il Corpo non conta: «Questo è il mio corpo» dice Dio agli amici. C’è del pane, s’è fatto (di) Pane: «È un segno, ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi» recita la sequenza del Corpus Domini. E il Dio dei filosofi – l’essere perfettissimo, immutabile, impassibile – dov’è andato a finire? In quel tozzo di Pane da mangiare abita, come al civico quarantuno di via Roma: un Dio tremante, timoroso, inquieto davanti alla possibilità di non trovare «quel peccatore che se n’è andato e che ha rischiato di perdersi» (C. Péguy). Il Giuda, l’Iscariota, s’impiccò col Pane in pancia: proprio lui che non voleva più avere a che fare con Iddio, finì per andarsene con Iddio nel corpo: “Non posso forzare la tua libertà, amico – deve avergli confidato Gesù –, ma tu non potrai impormi di andarmene da te. Verrò con te ovunque, mi sei caro, Giudammio!” (Il Corpo di Cristo, Giuda. Amen). Quella briciola di Pane, deglutita come medicina dalla più lurida delle anime, è la speranza di Dio nell’attesa che il peccatore si converta: «Bisogna che aspetti che il signor peccatore abbia la compiacenza di pensare un poco alla sua salvezza – scrive Péguy ne Il Mistero della carità di Giovanna d’Arco -. Colui che ama cade in schiavitù di colui che ama». L’uomo, quaggiù, si diverte a giocare con il “Gratta e Vinci”; Cristo, invece, ha inaugurato la prima della serie di partite del “Vinciperdi”. Nel Pane – l’Ostia consacrata – Dio gioca con l’uomo: «È il caso di dirlo – continua il buon peccatore Péguy -, noi giochiamo a vinciperdi. Per lo meno lui, perché io, Dio, se perdessi perderei. Ma l’uomo, quando perde, è solo allora che vince. Singolare gioco, io sono il suo compagno e il suo avversario. Lui vuole vincere contro di me, cioè perdere. Io, suo avversario, voglio farlo vincere». È il gioco di Dio, l’Eucaristia, con una sola regola: non c’è amore, salvezza, senza la libertà. «Se lo sostengo troppo, non è più libero. E se non lo sostengo cade (…) Quando ho il (suo) cuore, trovo che va bene. Non sono difficile» dice il Dio di Péguy. Dove lo si trova, un Altro così?
In quel pezzo di Pane, Dio è disarmato: non è più l’uomo ad essere nelle mani di Dio, tutto si rovescia: è Dio ad essere nelle mani dell’uomo. Un giorno intuiremo che niente è più bello dell’essere amati da un Dio libero. Non da un borioso feticcio, ma da un Dio la cui unica paura, giocando a vinciperdi, è di non riuscire a salvare l’uomo: «Io gioco spesso contro l’uomo, dice Dio, ma è lui che vuol perdere, l’imbecille, sono io che voglio che vinca. Riesco qualche volta a far sì che vinca» chiude Péguy. Prova a dire che il Corpo (di Cristo) non conta: quando si è gustato una volta l’essere amati liberamente, tutto il resto è servitù. «Il Corpo di Cristo, Marco (Amen)»: è la mia partita quotidiana di vinciperdi.
(da Il Sussidiario, 5 giugno 2021)
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi (Marco 14,12-16.22-26).
In tutte le librerie, L’invidia di Satàn (San Paolo, 2021), il nuovo libro di Marco Pozza su Maria di Nazareth.
(dalla quarta di copertina) – Adesso è facile, «basta il suo nome, Maria, perchè gli uomini esagerino, non capiscano più nulla. La chiamano povera donna, Madonna, bella donna. L’Immacolata, l’Avvocata, la Regina. I poeti hanno grattato il fondo del barile per escogitare le parole più giuste, le meno slabbrate, le più ardite». Lei, però, ama presentarsi con passi felpati, raccontata dalle nonne ai bambini, pregata dai bambini per i nonni. Invocata da santi, delinquenti e criminali.
Marco Pozza, “alla prova di Maria”, ne celebra l’unicità tessendo in armonia la devozione popolare, la teologia cattolica, i racconti paesani. Rievoca la storia di Gesuina, una vecchia amica della nonna che, solo nel nome, teneva nascosto l’agguato di Maria. Del suo Figliolo: «Perchè Gesuina è la versione femminile del maschile Gesù». Maria è il Gesù in miniatura, «la versione umana più vicina al Dio (dis)umano». Dalla nonna, mentre cucinava i broccoli impastava i dolci, faceva la pasta a mano: l’ha conosciuta lì, l’autore, la Vergine di Nazareth.
L’invidia di Satàn, l’imbecille fatto carne.
Il libro è un viaggio dissacrante e profondo attraverso le quattro stagioni della Vergine, con sullo sfondo i venti misteri del santo Rosario, «la corda di impiccagione di Satàn». Una storia ch’è tutt’ora muro di cinta tra il tempo e il non-tempo. Tra l’uomo mortale e il suo Dio.
Storia di una Madre, affidata alle labbra: «Dovevate sentire nonna recitare il rosario!»
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