La Bibbia a scuola: come parlare in questi giorni del “patto della pajata” a Roma. Lanci il dibattito perché sei già sicuro che si scaldano gli animi. Approfondimenti, interviste, lettere in redazione perché la Bibbia è un testo che fa parlare di sé, meraviglioso e sublime che racconta l’alfabeto della vita e della morte, la grandezza dell’uomo quando s’aggancia a Dio e il baratro in cui cade quando Gli volta le spalle. Troppo bello per non farlo diventare paladino politico, istituzionale, sociale. Ma sin dalle origini la Bibbia non ama le manipolazioni umane: l’unico contatto che concede è quello di uomini ispirati dall’unico Autore. La politica veneta chiede di riportare la Bibbia a scuola – proposta sostenuta a livello nazionale da Magris, De Mauro, Eco, Luzzato, Hack (non certo una lobby dell’integralismo cattolico) – e subito si levano gli scudi. Sostenere tale proposta assieme a chi la combatte, non esime chi l’appoggia dall’aprire gli occhi di fronte ad una situazione però imbarazzante che – hanno ragione – va a toccare quella che è l’ora di religione che si dovrebbe insegnare a scuola.
Mi sembra intrigante mostrare una frattura – ai più magari impercettibile – che molto impercettibilmente tale proposta denuncia. Prendiamo l’esempio di un ragazzo diciottenne che ha concluso la maturità classica quest’anno: dalla prima elementare alla quinta superiore potenzialmente la scuola aveva a disposizione per lui più di 350 ore dedicate all’insegnamento cattolico. “Certamente – diranno i paladini – ma uno può anche scegliere di non frequentarle”. “Onestissimo – rispondo io – ma siccome c’è qualche studente che in classe rimane, come mai in tutte quelle ore chi di dovere molto spesso non insegna la religione?”. La settimana scorsa una ragazza – frequentante una scuola privata cattolica di Padova – m’ha raccontato l’ora di religione che più le è piaciuta: quella in cui s’è letto e discusso del libro “Melissa P.”. Non conoscendolo apro wikipedia (non certo una lobby integralista cattolica) e leggo: “romanzo dalla trama assai esigua, ricco però di contenuti di esplicita natura sessuale”. Tiè, beccati questa. Avessero mostrato ai ragazzi un cortometraggio erotico, il danno sarebbe stato molto minore di quello arrecato da pagine zeppe di una concezione dell’amore che con la religione poco ha a che spartire. Ma se non è “Melissa P.” è “Braveheart”, “L’attimo fuggente” o mangime vario che pur creativo non merita di rubare le ore a quello che dovrebbe essere il compito primo di chi insegna la religione: raccontare e testimoniare la bellezza di un Uomo che offre la Salvezza. Con tutto il rispetto per Melissa P. e compagnia bella, penso che un’ora di religione non valga la flebile narrazione di una sua avventura erotica. L’ennesima, tra l’altro.
La proposta più nobile sarebbe quella di rivedere l’insegnamento della religione a scuola. Immaginate un professore di religione innamorato pazzo della sua materia, che parte dalla Bibbia (non da Melissa P.) per spiegare la grammatica della giovinezza, dell’anima, della musica e di Dio. Che magari si commuove spiegando, s’interroga, s’appassiona, emoziona e scalda gli animi. Vi rendete conto che in quel caso il passaparola degli studenti imporrebbe al Preside l’uso dell’Aula Magna da quanta curiosità farebbe nascere tale insegnamento? Ma perché non si fa religione così? Non si può più rubare tempo alla Scrittura per zappare tra i romanzi di Melissa P.: quello si fa durante la ricreazione, nell’autobus che porta a scuola, mentre si porta a spasso il cagnolino al pomeriggio. Ecco perché temo che la proposta di portare la Bibbia a scuola sia da leggere come l’ennesima conferma del fallimento di un certo modo d’insegnare religione. Che amarezza.