Un dito si erge, unico tra le altre dita. Indica, addita. In genere, si rivolge al diverso, a chi è un po’ particolare, “non è come gli altri” talvolta si dice. E non ci ricordiamo, prima di tutto, delle altre quattro dita puntate contro noi stessi.
Ci sono persone che non sono come gli altri. E hanno una difficoltà in più. Anche quando non hanno alcuna difficoltà “oggettiva”, ma hanno la spavalderia non tanto di essere diversi, quanto di ricordarsi di essere se stessi. Si fanno notare, pur senza sbracciarsi per essere visti a tutti i costi. Si fanno notare perché non sono allineati, perché hanno un istinto di conservazione dello spirito critico che va oltre l’istinto di preservazione della specie. E, per questa loro caratteristica, rischiano di fare l’effetto di uno starnuto in un’aula di tribunale: diventano un buffo diversivo in un clima compassato e sempre uguale a se stesso, suscitano ilarità e risolini divertiti; ma non riescono a muovere a fondo le coscienze e far muovere domande più grosse.
Ci sono persone che davvero si muovono come albatri, in questa vita, in questo tempo, in questo mondo, come se fossero perennemente stranieri. Forse questa definizione fa pensare alla disabilità, di tutti i tipi. E può anche essere, ma non si tratta solo di quello. Ci sono persone che riescono nell’impresa che è preclusa ad altri che, forse per invidia, preferiscono le risate al tentativo di prendere spunto da loro.
È vero: è riduttivo pensarci tutti uguali, solo perché ci vestiamo tutti uguali, ci guardiamo allo specchio e ci specchiamo tra di noi, sussultando al trovarci troppo diversi dagli altri. Alla ricerca della “sistemazione”, in paranoia se si hanno tempi diversi, situazioni diverse da quelle che vive la maggioranza dei coetanei. Che si tratti di ragazzi, giovani, adulti o anziani poco importa: viviamo ormai con tabelle prestabilite, da rispettare, con azioni automatizzate, con gerarchie incorporate, persino con fobie e paure precostituite. Ci coalizziamo riguardo alle cose di cui avere paura o a ciò per cui gioire; ci guardiamo intorno prima di piangere o di ridere, perché abbiamo anche codificato quali siano le situazioni “adatte” in cui possiamo o non possiamo farlo, in cui è conveniente o sconveniente.
No, naturalmente, non intendo che ci sono di queste regole, non in senso stretto almeno; ma se poniamo attenzione a noi stessi, credo che ci accorgiamo che, chi più chi meno, siamo tutti affetti da questa paura di non essere “abbastanza uguali” agli altri, a dispetto dei proclami che facciamo in direzione esattamente opposta.
Dalla Scrittura prendo un’immagine, che mi è rimasta impressa. Quella del tesoro nel campo1. Mi ricorda come ciò che è prezioso a volte si erge sul resto, anche se è nascosto, per la sua diversità. Il tesoro in un campo è un elemento “totalmente altro”. Eppure, il padrone del campo sembra non essersene avveduto. È curioso questo dettaglio: infatti, dalle poche righe del racconto evangelico pare che chi scopre il tesoro nel campo non sia la stessa persona che lo possiede. Si dice, infatti, espressamente che chi trova quel tesoro venda tutti i propri averi pur di possederla. Naturalmente, quella è una delle Parabole del Regno che pronuncia Gesù nel Vangelo e a quello si riferisce. Eppure, quell’immagine può essere adatta a rimandare anche ad altro. E cioè a quello che noi perdiamo – tante volte – di noi stessi. Alle volte, i tesori li abbiamo accanto a noi, li sfioriamo, li teniamo anche tra le mani, poi li gettiamo a terra, come pietre senza valore, perché sono troppo “originali”. E non ci accorgiamo che erano perle. Che avremmo potuto arricchire la nostra vita, mentre abbiamo preferito appiattirla. Lasciare terra su terra, invece di scavare di più, per raggiungere un tesoro che avremmo potuto conquistare. E invece abbiamo preferito venderlo al miglior offerente. Dimenticando la notizia più importante: le pietre sono tanto più preziose quanto più sono rare, uniche e introvabili. Cioè, quanto più somigliano a se stesse.
Guardare sempre e solo l’uguale è rassicurante, conciliante, rasserenante. Non crea problemi o preoccupazioni di sorta: il noto è già pienamente posseduto, è l’ignoto a creare i grattacapi. Il perpetuarsi di idee, azioni che ci sono sempre state, come si sono sempre fatte non cambia le cose. Risulta più comodo. Concepiamo un solo modo di fare, di dire, di agire. Chi si allontana da quello – anche solo nelle piccole cose – suscita quanto meno scalpore.
E rischiamo, ancora adesso, di far morire i profeti del nuovo secolo. Circondati dall’indifferenza generale.
1Mt 13, 44 – 45