Osannato. Ma pure fischiato: magari decuplicandone le colpe e dimezzandone le possibili imprese. Perché nascere nero in un mondo in cui il genio è per natura bianco è motivo di grosso sfavore: anche se la tua anagrafe testimonia il natale nella stessa terra di chi ora condanna. D’ora in poi potrà pure diventare il più grande, l’estro meraviglioso, la passione calcistica fatta carne: ma per i detrattori rimarrà colui che sul terreno del Camp Nou di Barcellona ha gettato a terra la maglietta dopo una prestazione nervosa e ben al di sotto della sopportazione sportiva. Ma si sa che nascere genio è un po’ sentirsi immuni da tutto: perché il genio sa fare cose che nessun altro riesce anche solo ad avvicinare. Tiene quell’immaginazione vergine che gli permette di leggere lo scorrere della storia – e con essa dei gesti che la compongono – con qualche frammento d’anticipo: quel che basta per permettergli di inanellare prodigiosi contropiedi che strappano l’applauso fragoroso ma anche un nervosismo diabolico. Mario Balotelli è l’ultimo rappresentante di questa squadra di cagnacci geniali: dura la loro vita se il decalogo del comportamento lo detta chi s’ostina a fare dell’omologazione il presupposto della vittoria. Nessuno misconosce che il genio a volte si conceda lussi che non gli appartengono: come l’allenatore magari non sempre concede quelle dovute attenzioni che lo facciano sentire valorizzato nel suo talento. Eppure in qualunque ambiente tu nasca o frequenti, nascere genio oggi è ritenuta una colossale sfortuna: perché è del genio l’improvvisazione, l’estro, la fantasia, l’immaginazione sovversiva, la potenza delle intuizioni, il gesto dell’affondo, l’altissima potenzialità dietro la riconosciuta e riconoscibile strafottenza del carattere. Ma tutto questo il più delle volte è visto come potenziale che mina la pacifica convivenza delle regole. Ma a chi s’arrischia di leggere la storia senza i soliti occhiali della compostezza, essa stessa mostra d’essere la somma e la moltiplicazione di migliaia di storie geniali. Un risultato pagato qualche volta con un prezzo esorbitante: come altre volte sul credito del genio ha guadagnato scoperte sensazionali. E rilanciato il ritmo dell’esistenza.
L’ha capito il buon Cesare Prandelli, l’allenatore che a Firenze ha scritto pagine di grande sport e di delicatissima umanità (la morte della moglie, ndr). L’ouverture in Nazionale l’ha voluta firmare subito scortato da due dei geni che l’attendevano: il Balotelli italiano e quell’Antonio Cassano che a Lippi tanto rompeva le uova nel paniere. Prandelli conosce il peso della sfida: ha messo le regole in chiaro da subito, ha riconosciuto la grandezza del genio ma anche la responsabilità che da esso ne deriva. Li ha elogiati senza santificarli, li ha cercati senza beatificarli, ma con quel gesto da padre ha tolto loro la sensazione di viaggiare in azzurro con un cappio al collo. Non ha vinto sul campo all’esordio con la sua nuova Italia. Ma il teleschermo gli ha tributato la vittoria più bella: nessuno degli ultimi allenatori esordienti ha avuto un seguito così numeroso. Segno che pure il popolo italico – che di sport si nutre, vive e talvolta pure soccombe – non ne poteva più della contraffazioni, delle vecchie guardie, delle raccomandazioni datate e dell’ostentata sicurezza degli ultimi giorni prima del Mondiale sudafricano. Fra qualche anno, magari, scopriremo che da una sconfitta è ripartita la scalata del gruppo azzurro. E si tributerà a quest’omino dalle idee chiare e creative il merito d’aver saputo organizzare il genio dietro facce troppo velocemente dichiarate incapaci di convivere con la compostezza di un gruppo.
Se ciò s’avvererà, il “metodo Prandelli” passerà alla storia come il manuale di recupero per i geni perduti. In caso contrario rimarrà l’esimia bellezza d’averci tentato.