A guardarli da fuori, procurano ribrezzo. Con tutti i suoi sinonimi: disgusto, ripugnanza, raccapriccio, schifo, orrore, ostilità. Obbrobrio, indecenza, infamia e disonore. L’essersi macchiati di un qualcosa di penalmente rilevante – sia un omicidio, ch’è gran cosa, sia un semplice furtarello da bottega – li rende molesti al punto tale da bannarli come foresti all’interno delle mura cittadine. Foresti e pure finiti: “E’ finito in carcere, menomale!” Finire è il segnale di strada cieca, un vicolo chiuso, un binario morto, una storia che non potrà essere a lieto fine. Qui, a metà strada tra i negozi del centro e il cimitero comunale, han preparato il loro posto: si scrive carcere si legge, spesso, necropoli. Tutt’al più, parcheggio, forse discarica, certamente oblìo. Tanto oblìo, troppo oblìo: con la pretesa, se poi non riusciranno ad uscire morti, che almeno li abbian aggiustati. Il che è follia anche solo a pensarci: può un parcheggio, per il solo fatto d’ospitare delle macchine, a lungo andare riparare anche quelle macchine qualora fossero state portate lì col carro-attrezzi perchè rotte, malconce, non funzionanti? Potrà mai un parcheggio trasformarsi in un’officina, per il solo motivo ch’è questo che il cittadino chiede?
Il rumore dei cancelli, il garrito acuto dei gabbiani, l’odore acre di cemento e urina, cibo e cloaca, la puzza di escrementi e il profumo di Chanel avvolgono il visitatore che si addentra nelle galere con una nebbia da Val Padana: “Qui, signori e signore – sembra dir il contorno, in coro – si gioca la partita seria della libertà!” Esattamente qui, dove la libertà s’è perduta, la libertà si mette a gridare, per essere recuperata. “Si sono accorti soltanto qui? Potevano pensarci prima, quand’erano ancora in tempo!” grida l’uomo con la ghigliottina in mano. Eppure, ad essere onesti, giocare a diventare grande è un passo celebre per la propria libertà e ognuno sceglie come, dove, quando e perchè. In un carcere, dunque? E perchè no? In fin dei conti c’è una cosa peggiore del perdere la libertà, ed è la macchia di aver iniziato a disinnamorarsi di essa mentre lei, testarda, cercava di molestarci alle calcagna, facendoci presente che c’era anche lei nelle nostre giornate. “Qui, a guardarci intorno, è un periodo alquanto liquido – potrebbe dire Zygmunt Bauman – Che ne dite?” Dico che, per questa volta, sarebbe meglio dire ch’è tutto un gran polverone. Che, per chi ci è dentro, se non fa attenzione è un lavoro che gli prosciuga la testa, tentando l’agguato d’inaridirgli il cuore. Qui, in questa “terra di nessuno”, l’impresa di (ri)educare è una forma di amore che sta tra il brillante e l’ossessivo, e che a tratti sfocia in momenti di autentica follia.
Entriamoci, dunque. Perchè, a conti fatti, qualcuno di quelli liberi ci entra in questo mondo di schiavitù (cercata). A spingerci dentro è nostra madre Patria, il suo (batti)cuore più baldanzoso che è la Costituzione Italiana, quella che vieta la pena di morte. E, con essa, qualsiasi aspetto di crudeltà: «La responsabilità penale e’ personale. L’imputato non e’ considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita’ e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte» (art. 27). Si entra per rieducare: per tentare di rieducare, così siamo più corretti; così ci mettiamo al riparo dai fallimenti e dalle ipocondrie che turbano tale impresa. Non entriamo per giudicare, ma per comprendere: almeno per provarci. “Sono dei posaceneri vuoti: troppo cretini perchè qualcuno abbia a preoccuparsi di loro. Sono mostri: lasciateli morire in pace”. Più che mostri, son occhi di anime che ti squadrano, ti misurano, ti spogliano. Ti sfidano, rinchiusi in una sorta di gironi infernali dai quali pare quasi impossibile, un giorno, uscir vivi e vegeti. Sono davvero dei mostri, però? A frequentarli non risultano tali: sono gente, è tutta gente, che ha compiuto azioni mostruse. Che definire mostruose è un eufemismo. Eppure, a toccare quegli sguardi furiosi e accigliati, si scopre l’inghippo: non sono affatto mostri, son gente che ha compiuto delle azioni così mostruose da cancellare persino il nome. Gente, però, che in quella mostruosità non ha esaurito tutta la ricchezza ch’era stata data loro in dote alla nascita. Qui, dunque, che fare? Perchè il carcere somiglia tantissimo ad una lavatrice: metto un panno sporco e mi aspetto che, tempo del lavaggio, mi esca pulito. “Guarda che meraviglia di lavatrice! Il miglior investimento fatto!” esclamiamo con l’intimo rimesso a nuovo. Ma se metto nella lavatrice un panno sporco e, il tempo di un lavaggio, mi esce ancor più imbrattato e lurido, forse la lavatrice ha qualcosa di rotto: “M’aspettavo che lo lavasse un po’ meglio con tutto quello ch’è costata!”
Fossero succursali statali delle scuole pubbliche, nelle galere l’ora da tutti più amata sarebbe quella della ricreazione. Dove ricreare non è affatto un verbo di sollazzo, gioco e spensieratezza – tra panini, baci dietro il lampione, compiti scopiazzati – ma una sorta di nuova creazione: ridar una forma allo sformato, il rimettere in forma ciò che ha perduto la forma. Riaggiustare, rimettendo insieme i pezzi, vite e storie che, per intrecci di cause, sono andate deragliando come vagoni di un treno fuoriusciti dai binari. Educare ricreando, dunque: non esiste cosa più affascinante di tentare di metter ordine dentro il caos! Qui dentro, solo a guardarci attorno, pare di essere dei palombari: ci infiliamo in questi scafandri di storie tutte confuse – storie che il mondo ha caricato nei blindati della Polizia, che le han poi portate in discarica – e, come palombari, cerchiamo d’inabissarci in quell’abisso, più profondo degli oceani, ch’è il cuore dell’uomo, della donna, al tempo della carcerazione. E da qui, da dentro questi ecomostri di azioni, di urla e di sconforto, tentare di riaprire una breccia nell’invalicabile muro di cemento e di lamento. Ci anima – perchè, per calarsi dentro, ci dev’essere per forza una forza animatrice – la certezza di Giovanni Grisostomo quando scrisse quella bella Lettera semiseria al suo figliolo: «Tutti gli uomini, da Adamo in giú fino al calzolaio che ti fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva, non è che una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima». Causare simpatiche oscillazioni, divertirci a gettare dei sassi per causare dei cerchi concentrici nell’acquitrino, usare il fendente di uno sguardo e far loro capire che una cosa è il reato, un’altra è la persona che l’ha commesso. L’avventura, nel paese del male, d’entrar con le sole armi della poesia, dell’arte, dell’artigianato non per tentare di mutare la bestia in angelo (questo non spetta a noi), ma di crear le condizioni grazie alle quali la bestia venga rosa dall’infinita nostalgia di ritornare ad essere quell’angelo che era prima che si decidesse, per chissà quali motivi, di affittar la propria anima al male. C’è una tendenza dentro ciascuno: se non vibra non è perche è morta. E’ addormentata: risvegliamola!
E agli inguardabili basterà uno sguardo per sentirsi vibrare il cuore che, in un breve lasco di tempo, passa dall’essere una confusa riunione di condominio a una curva da stadio in un derby sudamericano: se la confusione è la stessa, è l’accento di questa confusione a fare la differenza tra la disperazione e orgoglio, tra l’applauso e la sberla, tra l’infamia e il tripudio. Basta uno sguardo, dentro le patrie galere, per supplire la deficienza d’una storia ch’è andata sbandando: “Mi avessero detto ch’erano fieri di me quand’ero bambino, forse da grande mi sarei evitato il sospetto di non valere nulla” ha scritto un ragazzo detenuto in un tema d’italiano. Guardare non è vedere, come ascoltare non è sentire, palpare non è solo toccare. Guardare l’inguardabile è accettare il rischio di entrare in classe, in carcere, con la tua scaletta tutta perfetta, con la lezione già preparata, con tutta la perfezione del sapere addosso e accettare che uno sguardo, il loro, ti butti in aria tutto costringendoti allo sbaraglio. Adirarsi per la loro cafona strafottenza? Il bambino che, in famiglia, ha più bisogno di amore lo chiederà sempre nei modi meno amorevoli: perchè dovrebbe essere altrimenti qui dentro? Arrabbiarsi, se lo si vorrà, si potrà avvertendo sulla pelle che siam tutti insegnanti da Nobel fino al giorno in cui non arriva un’interrogazione a sorpresa. Lì, in quegli attimi, vince chi regge l’urto di quell’impreparazione. Il fastidio di affrontare il non calcolato.
Sequestrato (pure) lo sguardo, ogni galera corre il rischio di mutarsi in un assassino insaziabile, in un insaziabile pervertito, dove tutto ciò ch’essa è, che essa contiene, è adibito per la morte e non per la vita. Resta, dunque, lo spazio di uno sguardo come manovra di emergenza, come gestualità di recupero, aria immessa nei polmoni da bocche soccorritrici: “Lei mi guardava sempre in quella maniera, con quel suo sguardo. E io sapevo di esistere, mi sentivo vivo” ho letto sul muro di una cella della nostra galera, scarabocchiato dal suo inquilino o dal predecessore. Tutta l’educazione, qui dentro, parte dal sentirsi addosso uno sguardo. Se non c’è quello, torniamo ad essere delle particelle immobili: i colori ti possono anche incantare, ma è lo sguardo a dir tutto. Tant’è che, nel gergo di chi abita il ventre troglodita delle galere, s’è coniata l’espressione: “Attenzione, che in galera abbiamo l’anima dentro lo sguardo!” Ecco perchè il semplice fatto di guardarli – ch’è la prima forma di approccio umano, in qualsiasi situazione ci troviamo – è già anche una presa di posizione, un trasmettere loro da che parte stiamo. Perchè da come la gente ci guarda, anche noi finiamo per guardarci alla stessa maniera: abbruttiti, immiseriti, umiliati. Oppure ringiovaniti, ricreati, lucidi. Da come ci guardano, sentendoci guardati, iniziamo a pensare di potere essere anche diversi da ciò che siamo oggi: non solo in carcere, dappertutto.
É la vita.
Quella che il buon Manzoni, forte del suo genio incomparabile, seppe fare emergere dall’incontro tra il brutto della società d’allora, l’Innominato, e la parte più bella del tempo, quell’uomo di fede e d’amore che fu il cardinale Borromeo. Il loro incontro è una dichiarazione d’amore all’educazione, un inno allo sguardo che ricucisce: «Introdotto l’Innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata. L’innominato, alzando gli occhi in viso all’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso e soave. Federigo stese la mano a prender quella dell’innominato. “No!” gridò questo, “o! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere”. “Lasciate”, disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, “lasciate ch’io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile” L’innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, esclamò: “Dio veramente grande! Dio veramente buono! Io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppur! Eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!”» (I promessi sposi). Anche con tutti i mezzi di comunicazione del mondo a disposizione, nulla riuscirà a sostituire la potenza dello sguardo di un essere umano: la solitudine più nera è quella di non sperimentare più da nessuna parte la cortesia di uno sguardo. Uno sguardo che, senza insabbiare i misfatti firmati, sia capace d’innalzarti al di sopra di essi.
Restano, comunque, le gesta compiute, somma di errori, d’imprecisioni, di ridotte vedute d’insieme: che farne? Pensare di non compiere errori è avere la certezza di lavorare su problemi non così tanto complicati d’apparire avvincenti. Anche l’occultare gli errori, a conti fatti, non rende giustizia alla giustizia della giustizia. In galera, tutto questo, pare più evidente, un’evidenza che quasi toglie il respiro: “Ho imparato così tanto dai miei errori che sto pensando di continuare a farli” ha scritto un ragazzo in un altro tema. Più che assecondarlo, val bene trasmettere l’arte dell’imparare a nuotare: la prima cosa che si fa, iniziando, è compiere degli errori. E quando ti accorgi? Farai altri errori, seppure diversi. E quando hai fatto tutti gli errori possibili senza essere affogato? Ti accorgi che hai imparato a nuotare! Immagino così anche la vita: non esiste altra maniera per imparare a vivere che non temere di sbagliare. D’accettare che una vittoria possa arrivare al termine di un’epopea infinita di misfatti. Più o meno complessi, brutali, letali. Qui, avverto, essere in gioco laa mia capacità d’esser educatore: la grandezza e la miseria d’essere tale. Il momento più delicato, anche per chi educa, è quello che segue l’errore: il momento clou per decidere il da farsi. Per continuare a difendere quello che si era prima o per capire definitivamente chi siamo. A volte si tratta di un istante, quasi impercettibile, ma dopo quell’istante la vita rimarrà per sempre spaccata a metà: prima di quell’istante e dopo di quell’istante. È incontrando l’uomo in quest’istante fatale mi è data la possibilità di misurare me stesso: fiutare quanto son capace di calarmi dentro quegli errori e, dal loro interno, con competenza e passione comprendere ciò che ha acceso questa storia dannata. Stanare l’incipit di questa a prima vista compromessa.
Stipati come sono alle cancellate delle sezioni, ogni tanto la cosa difficile è capire s’è peggio andar incontro al proprio destino in mezzo a torture tremende oppure andarci ignari di tutto, subendo il carcere invece che vivendolo. A chi di noi s’affaccia anche solo con la speranza di lasciar il mondo, questo mondo, un pà migliore di come l’ha trovato, pare chiaro che qui, per educare, o si accetta di giocare a scacchi oppure il tempo darà ragione al male, quando c’invitava tutti a lasciare perdere la sfida: “Che faticate a fare? Tanto questi non cambiano: sono miei, gente, mettetevela via!” A noi, invece, piace giocare a scacchi, anche se – come nel mio caso – non ci siamo mai seduti davanti ad una scacchiera, ma ne abbiamo studiato la genesi. Noi da una parte, loro dall’altra, il carcere come una immensa scacchiera: “Le pedine dell’avversario non si possono spostare come vi piace, non si possono nemmeno toccare: pena l’invalidamento della partita a causa della scorrettezza!” Si possono solamente stimolare all’azione, dunque: e lo si può fare soltanto attraverso le nostre pedine. E loro, le persone detenute, di fronte ad una nostra mossa improvvisa, capteranno l’urto di una contromossa che accenderà, insomma, la nostra partita a scacchi. Finalizzando l’esistenza di un posto come la galera che, pure brutto, certi giorni sa farsi avvincente. Anche educante, nella misura in cui si è riusciti ad accendere la curiositas del gioco in un’anima ch’era prima addormentata. Abbiamo causato simpatiche oscillazioni!
Cedo la parola a chi, recluso, ha riottenuto poi l’immensa libertà: “(Da ex detenuto) mi paragono spesso a qualcuno che per tutta la vita ha udito i rumori di un luna park senza poterci entrare. Non ero nel mezzo dell’azione, certo, ma questo significa forse che per tutti quegli anni della mia vita non è successo mai nulla? Mi vien da pensare che in prigione la mia vita interiore sia stata mille volte più ricca di quella degli altri e le mie riflessioni mille volte più intense. Ero molto più consapevole della libertà, quand’ero in carcere, della gente libera. Ho imparato a riflettere sul senso della vita e della morte. E adesso che è finito, che sono tornato libero tutto mi sembra finto, non riesco più a prendere le cose con una certa serietà”. Resta la domanda: costui, in carcere, è finito o è iniziato?
Ci siamo educati, vicendevolmente, alla resilienza. Che, al mio cuore ch’è sempre passibile d’arresti cardiaci, risuona come la versione pagana di ciò che il cristianesimo chiama speranza. Quando una barca si rovescia, mentre alcuni affogano, altri stanno lottando strenuamente per tentare di risalir sopra. Questo gesto – il tentare di risalire nella barca – il popolo latino lo chiamò resalio. E, per me, è la qualità di chi è duro a lasciare perdere la speranza: di colui che prende in mano la propria storia e, ancor una volta, ci riprova. Perchè c’è un dolore che fa male e basta e c’è un dolore che, facendo male, impercettibilmente ti cambia.
Qui, in galera, non si gareggia contro qualcuno: si corre insieme agli altri cercando d’imparare dai migliori. Ad essere migliori dei migliori. E per allenarsi a questo, gli sguardi avvicinano più dei passi.
Aprono più porte d’un mazzo di chiavi.