Come una foto ingiallita dal tempo. Giulio Andreotti era capo del governo per la settimana e ultima volta, la rivoluzione di internet doveva ancora scompaginare la comunicazione globale e la famigerata moneta unica era ancora lungi dal complicare la vita dell’Europa. Sembra una storia d’altri tempi, in una nazione d’altri tempi, con una trama d’altri tempi. E un nome che in questi giorni tornerà tremendamente alla ribalta, quello di Pietro Maso da Verona. Dopo ventidue anni di galera, domattina uscirà: nessun favore a suo carico, semplicemente il rispetto della legge. Uscirà lunedì, mercoledì correrà il ventiduesimo anniversario della “mattanza” di mamma e papà: martedì, nel mezzo delle due date simboliche, l’uscita del suo libro dal titolo “Il male ero io”. Quella sera nelle colline di Montecchia di Crosara, borgo della Verona laboriosa e della locomotiva industriale veneta, un ragazzo – assistito nell’esecuzione dal trio amico Carbognin-Cavazza-Burato – dipanò di fonte alla cronaca una convinzione assai diffusa: che il denaro fosse la misura della realizzazione di una persona. Cinquantatre colpi con una spranga di ferro per cancellare le tracce di una vita trascorsa tra campi e risparmi, famiglia e parrocchia, lavoro e sudore. Ciò ch’è rimasto di quella sera, lo custodisce la terra in un’anonima fila del camposanto di Montecchia. Sotto il nome una scritta: “i vostri cari”.
La giustizia ha fatto il suo corso. Lo ha spiegato una mamma al suo bambino: “quando il castigo è stato espiato, ognuno ha diritto ad una nuova vita. L’augurio è che non la sprechi”. Quella mamma è il giudice del tribunale di sorveglianza di Milano che ha firmato la fine della pena di Maso. Si chiudono le porte di un carcere, si spalancano (certamente non a suon di applausi, ndr) le porte della società: quale delle due zone sarà più difficile da abitare, Pietro Maso un giorno lo potrà raccontare al mondo che in questi giorni lo sta aspettando. E’ giusto che esca: “rieducare” è un verbo che intenerisce e affascina, crea dibattito e accredita stima ma è pure un verbo esigente perchè chiede una chance, un’occasione concreta per dimostrare che l’uomo non è il suo errore. Lo attenderanno con la foto di ventidue anni fa: per ognuno che entra in carcere – nonostante gli anni che passano – in città rimane un “fermo immagine”, scattato all’ora del delitto. L’uomo di paese non crede nella redenzione, ancor meno nel pentimento; spetterà al nuovo aggiunto raccontare con lo stile di una vita all’altezza che l’errore è stato cagione di nuova vita, terreno fertile di una nuova rinascita; pur pagata ad un prezzo esorbitante.
In carcere la prigione ha il volto delle sbarre e dei cancelli, la voce del metallo e i colori del grigiore, il sottofondo dell’insonnia e l’incubo di se stessi: per ventidue anni Pietro da Verona l’ha abitata. Ad attenderlo, adesso, una prigione diversa e per certi versi ostica da abitare: quella di chi potrebbe ostinarsi ad inseguire il mito dell’uomo vecchio o, più semplicemente, la favola del giovanotto che piaceva e si piaceva, che sfidò la giustizia e l’opinione pubblica indossando una camicia aperta e un foulard scuro a poi bianchi all’epoca del processo. Un passo è fatto e campeggia nel titolo: il verbo “essere” è messo al tempo imperfetto, il tempo delle azioni che si sono prolungate nel tempo ma sono oggi terminate. Ventidue anni dopo l’ultimo governo Andreotti l’Italia non ha ancora un governo, dopo l’avvento dell’euro si rimpiange la lira, in piena era digitale rinasce la nostalgia della busta col francobollo. Domani esce Pietro Maso: l’ennesima prova di maturità per lui e per la società.
In palio per entrambe le parti un attestato di civiltà e umanità.
(da Il Mattino di Padova, 14 aprile 2013)
“Per la società e per lui la vera sfida della libertà”
Come la più ardita tra le possibilità: il ritrovare una libertà perduta per tornare ad immaginarsi una nuova modalità di vita, dando ordine a quella speranza ch’è rimasta accesa nel fondo dell’animo. Pietro Maso rientra a pieno titolo nella società e per entrambe le parti sarà come affrontare l’esame di maturità: per chi nel passato aveva tradito la società, la libertà sarà motivo per restituire – anche solo con uno stile nuovo – quella bellezza che un gesto ha striato; per la società sarà il ritrovare un figlio che durante la galera ha sentito rinascere la nostalgia di casa, ovverosia quel luogo nel quale sentirsi al sicuro anche quando cala l’oscurità. Nel periodo della detenzione l’uomo ha la possibilità di scendere nell’abisso del suo cuore e contemplare la lotta quotidiana che s’ingaggia tra la grazia e la disgrazia, la miseria e la misericordia, la bestia e l’angelo: poggiare lo sguardo su questa battaglia interiore permette all’uomo di scegliere da che parte stare e, di conseguenza, re-imparare a sognare, desiderare e vivere. E’ il terreno fertile della carcerazione: un futuro colorato di riscatto è sempre e solo il sudato premio di una elaborazione del proprio passato compiuta nel silenzio eremitico e confuso di una cella di galera. Laddove la Grazia di Dio, silenziosa e apparentemente assente, riedifica le rovine antiche, ripara le brecce e restaura le strade perchè siano popolate (Is, 58,12).
Domattina Pietro saluta la galera, quella fatta di sbarre e chiavistelli. Il rischio è quello di entrare in una galera più subdola e colorata: quella di chi, vittima del proprio passato, si mette a rincorrere il mito dei tempi andati accettando di fare del proprio male un business a colori. Quali delle due galere sia più disumanizzante è la storia a dimostrarcelo. Forse per questo stavolta l’occasione è ghiotta e piuttosto che fare l’uomo ladro lo può rendere custode: raccontare al mondo che a volte la detenzione è quel deserto dentro al quale Dio conduce l’uomo per parlare al suo cuore e poi rimetterlo dentro i quartieri del mondo per diventare testimone di Risurrezione. Letta alla luce della Pasqua, la vicenda di Pietro ritrova il sapore del primo giovedì santo della storia, quando anche i piedi di Giuda sono stati lavati, asciugati e baciati come i piedi di tutti gli altri discepoli, senza differenza alcuna. Sarà dunque una gioia tutta cristiana contemplare due piedi che, dopo aver imboccato nel passato una strada chiusa, sono riusciti a ritrovare il sentiero che porta verso casa. Per tornare a celebrare la vita che, nonostante tutto, rimane una sorgente di meraviglia.
(da Avvenire, 14 aprile 2013)