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La preghiera sacerdotale, del capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, che ci accompagna in questo Tempo Pasquale, mostra, quale primo pensiero per la Chiesa nascente “che siano perfetti nell’unità”, ad imitazione della stessa Trinità, nella cui comunione siamo chiamati ad entrare, insieme coi fratelli.
Prima persona, plurale. Non: singolare. La Chiesa è di Cristo: è una sua idea e una sua realizzazione, l’ha fortemente voluta e cercata. Se ne è fatto carico, da prima che nascesse, l’ha pensata, prima anche che fosse costituita. I suoi occhi erano rivolti a lei, mentre i suoi membri erano ancora persi nei pensieri del Giovedì Santo, quando si sono dispersi e sparpagliati, nella cupa notte del Venerdì Santo.
Non è possibile credere a Cristo, scindendolo dalla Sua Chiesa. Sfida, fatica, ma, insieme: fascino di una tensione verso cui, in un certo senso, spontaneamente, tendiamo. Perché, in fondo, non possiamo pensarci senza quegli altri che pur ci infastidiscono, costringono, limitano: che, in ogni modo e in ogni caso, sempre e comunque, finiscono con il metterci in discussione, nelle nostre certezze, come nelle nostre idiosincrasie e nelle nostre fisime.
Eppure, se accettiamo di essere onesti con noi stessi fino in fondo, ci convinciamo che, molto spesso, gli altri sono il nostro specchio: quello che ci dà fastidio nasce da qualcosa che, se non facciamo, almeno pensiamo noi. Solo che, vissuto sulla propria pelle, è sempre diverso. Così, forse, solo imparando ad usare un po’ di pazienza e guardando sia noi stessi che gli altri con gli occhi misericordiosi di Dio, riusciamo a vedere riflessa, anche in loro, la bellezza del volto di Dio che, in Cristo, ha preso la carne del figlio dell’uomo.

A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole (1 Cor 12, 9-11).

San Paolo, invece, nella lettera ai Corinzi sottolinea la diversità di carismi, quale dono dello spirito Santo, che, pur essendo uno, si mostra in modi anche molto differenti (lingue, profezia, discernimento, guarigioni, sapienza, conoscenza…), a beneficio del Corpo di Cristo.

Come conciliare queste due prospettive? Unità o differenza?
La comunione perfetta, si realizza nella diversità dei carismi. La differenza non comporta allontanamento, separazione o contrasto. Perché, in Dio, le differenze si conciliano, pur senza appianarsi, come felicemente sintetizzato nell’assioma: «in Deo omnia sunt unum, ubi non obviat relationis oppositio» (concilio di Firenze – “in Dio tutte le cose sono una cosa sola, dove non vi si opponga la relazione”, per cui, ciò che non può coesistere, ad esempio, per opposizione di relazione, sono la bontà e la malvagità).
In fondo, come nella Trinità, è così anche per noi. La diversità sessuale, di stato di vita, di condizione sociale, di provenienza geografica, di competenze rappresentano una costante fonte di nuove domande, di ulteriore approfondimento, per le proprie ed altrui conoscenze. Solo dove vi sia diversità, il dialogo intessuto diventa ricco e fecondo. Se, per ipotesi, due persone la pensassero esattamente allo stesso modo, avessero esattamente lo stesso vissuto e le stesse esperienze, così come le stesse conoscenze e competenze, ben presto ogni tentativo di colloquio diventerebbe prima noioso, quindi frustrante, fino a ridursi al più totale silenzio, dove il dialogo risulta sconfitto dall’impossibilità di trovare un argomento che riscuota l’interesse dell’interlocutore e lo stimoli a nuove riflessioni.

Conseguentemente: maggiore è la diversità, maggiore è (almeno potenzialmente) la possibilità del reciproco arricchimento personale, culturale, spirituale.

Al contrario da quanto potremmo superficialmente pensare di primo impatto, la diversità, lungi dal mettere in piccolo l’unità, diventa ricchezza e fonte di comunione più profonda. Perché, se, in virtù di una diversità, io vedo il bene che l’altro può apportare, il risultato sarà una comunione che non è frutto di uniformità, bensì il risultato di una sommatoria di elementi diversi che, però, stanno bene insieme: formano una sorta di armonia, risultante da linee melodiche differenti, che però risuonano all’orecchio in modo gradevole.
Del resto, è lo stesso Gesù Cristo, ad attestarlo:  

«In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi». (Gv 14, 20)

Noi non siamo, in quanto creature e in quanto uomini, ontologicamente assimilabili (almeno, non in senso stretto) alla Trinità: eppure, è nella scoperta della nostra partecipazione alla comunione intra trinitaria che risiede il fine ultimo della Rivelazione, che lo Spirito Santo viene a ricordarci, affinché possiamo vivere in pienezza la ricchezza del legame con Dio, tramite i fratelli che ci sono accanto.


 Rif. letture festive ambrosiane, nella Domenica di Pentecoste, Anno B

Fonte immagine: Pixabay

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