La si invoca aggrappandosi ad un nome-comune, composto da una sillaba e una vocale. La “emme”, sillaba del gusto: “Mmm, che bontà”. La “a”, vocale dello stupore: “Ah, che meraviglia”. Sillaba e vocale sono materiale spoglio, attrezzatura ridotta all’osso, l’elementare della vita, sufficiente nel dare alla luce la parola “mamma”. Tre volte “emme”, un raddoppio di “a”, la meraviglia è servita: sedetevi a tavola. Il prezzo da pagare, per destarle dall’anonimato, è sfacciatamente inferiore al guadagno racchiuso nella loro presenza quando si mettono all’opera: una madre in allerta è una leonessa in stato d’assedio. Roba d’agguati. Una città capace di reggere gli assalti del nemico.
Nessuna madre è solo una donna: è una creatura nata al femminile, poi è diventata madre. Il maschile di Dio. Nascere donna, dunque, è conoscere l’arte della delicatezza, diventare madre è lambire gli spazi misteriosi di Dio: è nel loro grembo che l’Eterno ha deposto la pista d’atterraggio della vita, la custodia di essa fino al suo ritorno. Roba, quest’ultima, da far ingelosire Dante, ridurre alle ginocchia Petrarca. Forse per questo gli uomini hanno paura delle donne: il riverbero di Dio non è solo un vanto da esibire, è un appuntamento al quale non mancare. Quando le contemplo all’opera, capisco che la gelosia non ha ragione d’esserci: i posti che vanno ad occupare sono i posti lasciati vuoti dagli uomini. Sboccia qui il segreto della loro arte-del-rammendo: non vanno mai a cercarsi le occasioni. Neanche le complessità. Quando le occasioni vanno a cercare loro, però, le mamme si fanno trovare puntuali: cinture ai fianchi, sandali ai piedi, leste a partire. Mai dome: indossare, anche per un solo istante, la loro missione senza essere nati donne, è provare le vertigini, improvvisarsi naviganti su mari di tempesta senza aver mai preso in mano una nave. Un azzardo. Guidare la vita quand’è assediata non è arte, è intuito di madre: solo chi dà la vita sarà capace di preservarla. Se necessario, di rimetterci mano: chi crea, ricrea.
Davanti alle sbarre delle galere, nelle camere surriscaldate della maternità, sotto la Croce dell’infermità: quando tutti scappano, loro stanno. Sanno starci che è una meraviglia, sembrano nate apposta per quei momenti. Sono nate apposta per quei momenti. Gli uomini, nella storia quella sacra, credono il mattino di Pasqua. Le donne, nei Vangeli, credono il sabato-santo: il giorno del silenzio, dell’abbandono, della disfatta. La figura più bella, quella che Cristo premia, è quella femmina: a una di loro, la più sbilenca, rivolge il saluto-primo da Risorto. Era giusto così. Tant’è che “nel nome del Padre” inizia il segno della croce, in nome della madre inizia la vita: «A guardarle fanno spalancare gli occhi e allargare il respiro» (E. De Luca). E’ stato restituito loro ciò che spettava sin da principio. Perchè anche quando sbagliano, è da temerari rinfacciare loro il torto: prima di giudicarle, occorrerebbe indossare le loro scarpe, abitare le loro attese, reggere ritmi e prospettive. Inversamente, ogni parola sospetterebbe di gelosia, d’invidia, d’insopportabile voglia d’emulazione. Senz’affatto riuscirci.
Solo una volta ho sfidato un’appartenente a questa banda-d’assaltatrici: “Perchè t’incazzi? Tranquilla, per favore”. La sua risposta è stata una sentenza-definitiva senza possibilità d’appello: “Bisogna essere mamme per capire certe cose”. Era la mia mamma: tempo qualche giorno, ho dovuto darle ragione piena. D’altronde nascere uomini è accendere il fuoco, nascere donne è insegnare che il fuoco scotta. Oggi, come ogni anno, è la loro festa: in colpevole ritardo sulla tabella della loro marcia. Hanno deciso di festeggiarla l’otto di maggio. Onestà vorrebbe le si festeggiasse il primo-maggio, nella festa del lavoro. Sono le uniche alle quali il lavoro non manca mai: quando manca se lo inventano. Non è genialità, è gratuità. Lavoro-gratis: questo sono le mamme.
(da Il Mattino di Padova, 8 maggio 2016)