bambina

D’un fascino travolgente. Di primo acchito li/le tramortiva con quella bellezza inimitabile: la conquista, però, era frutto di parole che nel mentre venivano partorite già ricreavano la storia: “guarda!” e il cieco ci vedeva. “Cammina!” e lo storpio si raddrizzava. “Guarisci!” e la donna dal ciclo irregolare (record: dodici anni di irregolarità mestruali) tornava donna. “Alzati e cammina!” e il paralitico se ne partì con la barella sulla schiena. Un giorno lo vollero fare re: fraintendimenti di una folla che erroneamente pensò “questo ci risolve tutti i problemi”. Ogni epoca tiene la sua immagine sbagliata di Dio; in ogni epoca Dio fugge per salvare il suo vero volto, quello che neppure a Mosè – al quale Dio pur sempre parlò come ad un amico – fu concesso di contemplare faccia a faccia. La folla lo acclama, Lui sgattaiola via; la pancia piena lo addita come mago, Lui fugge leggero sulle incomprensioni e si rintana a pregare tutto solo. La gente non lo capisce affatto; Lui riparte ogni volta da zero. Lasciando come traccia un frammento di quella Bellezza unica tra le vie della Palestina.
Non lo compresero appieno neppure coloro che Gli passarono accanto, neppure coricandosi sul petto; nemmeno coloro che assieme condivisero pani, pesci e speranza. Pochi seppero – o forse solo quell’unica Donna pure Lei preservata dal peccato – che quella bellezza insopportabile e ambiziosa nasceva da un cuore orfano della gelosia. Straziante bellezza priva dei tafferugli della gelosia: “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. L’elisir di quella bellezza giace stampato in quell’apparente ignominia: Bellezza che sgorgò dalla Bruttezza di un legno da malfattore: “per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome; perché nel suo nome ogni ginocchio si pieghi (…) e ogni lingua proclami” (Fil 2,5-11). Non lo capiscono i paesani, l’hanno frainteso pure i suoi, l’hanno minacciato di gettarlo dal precipizio. Perché va bene tutto – che eviti la corona, che se la prenda per i fraintendimenti, che accusi la folla di pensare alla pancia – ma questo proprio no: “il pane disceso dal cielo” (liturgia della XIX^ domenica del tempo ordinario) non può essere quel figlio del carpentiere Giuseppe, della lavandaia Maria: non c’è carisma, manca di charme, poca appetibilità sul mercato. Non può essere che Dio si sia nascosto tra le viuzze nazarene, all’imbrunire del sole o al calare delle pioggia e loro non lo sapessero. Dio, qualora fosse tale, dev’essere il loro Dio: quell’immagine paffutella e puerile, arzigogolata di baffi e con la pancia rotondetta. Mani giunte, testina inclinata a sinistra e occhiaie sbadatamente puerili. Un altro Dio sarebbe difficile da digerire: significherebbe mettere in discussione l’immagine di Dio che ci si è creati, dover rileggere passi e passaggi precedentemente dati per assodati, avvertire che la fede è un eterno cammino da battere e ribattere. Che la fede è cercare per trovare e cercare ancora dopo aver trovato. Cercatori di Bellezza in perpetuo movimento per registrarne il fruscìo.

«Essi [i mistici] articolano così un’estraneità del nostro proprio luogo e, dunque, un desiderio di tornare a casa. Quanto a me, simile all’“uomo di campagna” in Kafka, ho chiesto loro di entrare. Da principio il guardiano rispose: “Si può, ma non adesso”. Segnare il passo per vent’anni davanti “alla porta”, “a furia di esaminarlo”, mi ha insegnato a conoscere nei minimi dettagli il custode della soglia, “fino alle pulci della pelliccia”. Così dunque il mio guardiano Jean Joseph Surin e molti altri, di fronte ai quali esorbitante si logorava una pazienza erudita, e i cui testi tuttavia non cessavano di sorvegliare il mio scrutarli […] L’attesa laboriosa davanti ai vigili custodi permette infine di intravedere “una luce gloriosa che sgorga eternamente dalla porta della legge?” Il chiarore – allusione kafkiana alla Shekinà di Dio nella tradizione ebraica – potrebbe anche essere lo splendore di un desiderio venuto da altrove […] Infatti, perché si scriverebbe, vicino alla soglia, sullo sgabello indicato dal racconto di Kafka, se non per lottare contro l’inevitabile?»
(M. De Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Il Mulino, Bologna 1987, p. 38).

Cercare Colui che ci sta cercando: è rimasto un che di quell’insopportabile bellezza in ogni narrazione della fede. Perché di Dio c’è rimasto forte quel sospetto della gelosia, senza la quale probabilmente il mondo lo si vedrebbe dalla Sua parte: intrigante e ordinato come quel giardino che campeggia all’inizio e alla fine della Scrittura, amabile come le mani che l’hanno ricamato nei giorni della creazione, travolgente come le Parole di Chi, dal nulla, seppe dargli forma, energia e vita. Venne Lucifero, esperto conoscitore della gelosia, e ne offuscò la primordiale Bellezza. Il mondo gli dette credito: uccisero l’autore della Vita perché la Bellezza faceva paura. Lui tornò, lo anticipò Lei, lo avvertirono in tanti in quei lunghi mille giorni di peripezie: è la gelosia che impedisce di scrutare il mondo dalla postazione di Dio.
Nacque lì, all’incrocio tra gelosia e menzogna, quella spavalda immagine moralistica di Dio e della sua proposta d’amore. Il suo era (e rimane) semplicemente un invito ad una vita luminosa. Tutt’altra cosa capirono gli uomini e lo uccisero. Lo uccisero per gelosia: era troppo quel Pane che prometteva sazietà: al mondo bastava molto meno. Ieri, hodie et semper.

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