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Nel pieno del diciassettesimo secolo il pensatore inglese Thomas Hobbes divenne celebre per la sua teoria di filosofia politica che si può riassumere nella frase “Homo homini lupus”. “L’uomo è un lupo per l’uomo”. Quasi nessuno spazio per i sentimenti positivi, pochissimi spiragli per un’umanità che si prende cura di se stessa e dei più deboli, se non per evitare di soccombere in massa alla propria e altrui aggressività. Una manciata di decenni più tardi, dall’altra parte della Manica, il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, nel pieno dell’Illuminismo, ideava una teoria del tutto contrapposta: l’essere umano, fin dagli albori della sua civiltà, è mosso dalla “pietas”, quel sentimento di compassione che fa sì che nessuno rimanga indifferente al dolore altrui e che quindi ci si attivi per prestare aiuto a chi è in difficoltà.
Due idee agli antipodi, eppure entrambe vere. Coesistono, nel genere umano, sia gesti di disumanità terrificante, quanto spunti di solidarietà e d’aiuto che riescono a smuovere mari e monti.
Di questi ultimi c’è un’italica tradizione così bella che chi la scopre per la prima volta si ritrova sempre con il sorriso sulle labbra. La città partenopea ne rivendica l’origine: è la pratica del caffè sospeso, cioè l’abitudine di lasciare al bar un caffè già pagato che, più tardi, verrà consumato da chi si trova in stato di bisogno.
Ciò che più mi intenerisce di quest’usanza è che quasi mai chi offre e chi prende s’incontrano. Si lascia in sospeso per qualcuno che verrà, chiunque sia; si beve un caffè offerto da un benefattore che magari è appena andato via: è l’apoteosi dell’anonimato, che si adagia come un manto su donatore e ricevente.
In questi giorni drammatici, segnati da una pandemia che ha gettato molti di noi nel dolore di lutti difficili da elaborare – vista la quasi totale assenza dei loro riti – nell’angoscia dell’incertezza lavorativa, nel disagio di una mancanza di lavoro improvvisa, con la conseguente difficoltà a mantenere se stessi e la propria famiglia, in questi giorni di estrema inquietudine sono spuntate, in più parti d’Italia, iniziative di solidarietà popolare che spesso hanno preceduto quelle ufficiali degli organi preposti. È il fenomeno della spesa sospesa, ad esempio, che del caffè sospeso è figlia che ha germogliato ovunque, da nord a sud della penisola. Dare, senza curarsi di che colore, idee, o religione sia la mano che prende.
E ricevere, senza sapere di che religione, idee o colore sia la mano che ha offerto. Perché non conta l’identità di mittente e destinatario, ma solo l’umana compassione che viaggia tra l’uno e l’altro.
Anche la Pasqua, che celebriamo ogni anno, ogni domenica – anche quella che celebriamo dentro le nostre case – è una Pasqua sospesa. L’autore del dono ha già offerto, una volta per tutte e continua ad offrire, grazie alla pratica del memoriale che rende quella domenica di risurrezione un giorno che dura come l’eternità.
Pasqua sospesa, non in-sospeso, come in tanti ancora temono perché non possono recarsi fisicamente in chiesa. La seconda è come un enorme punto di domanda, è come l’incredulità di Tommaso che, schiacciato da un dolore troppo grande, ha paura di aprirsi alla speranza, ha timore a dare per vero il racconto dei suoi compagni. La prima, invece, è uno stupefacente punto esclamativo al termine della frase “Io Sono!”, il nome di Dio, che ha saputo abbattere lo sbarramento della morte, è stata capace di ignorare le porte chiuse di un cenacolo, per ridonare fede e speranza all’amico ancora incredulo e a tutti noi.

 

Fonte immagine: Pixabay.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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