cyberbullycourtesyof 2921836 703605Tiene banco, in questi giorni, la questione del cyberbullismo. Pare che i media abbiano scoperto che possono essere considerati maligni commenti ironici e poco caritatevoli nei confronti delle disgrazie altrui, anche se questi personaggi famosi hanno fatto poco o nulla per risultare simpatici al grande pubblico.
Tutto giusto, per carità, ma sembra un po’ una scoperta dell’acqua calda, con l’aggiunta della proposta di un rimedio ben lontano dall’essere efficace. Il rimedio sarebbe riproporre l’ormai desueta ed inusitata censura, tanto vituperata dai sostenitori del moderno stato laico, che ritengono (erroneamente, per altro) la chiesa unica o principale depositaria di tale pratica. È buffo che proprio i principali avversari di questa pratica siano poi rpimi a volerla riproporre in formato digitale. Forse perché la coerenza abita altrove, forse perché molto spesso “chi disprezza, compra” e di fronte ad un problema antico si preferisce riproporre antichi (e inefficaci!) rimedi piuttosto che ritornare all’antico per trovare nuove e più efficaci soluzioni.
Pensare di eliminare i contenuti sconvenienti o lesivi per evitare le più drammatiche conseguenze del cyberbullismo mi sembra non solo inutile ma addirittura dannoso e di certo non effettivamente risolutivo rispetto al reale problema.
La realtà che forse sta emergendo ora è che le parole feriscono come coltelli, annientano l’autostima, irrancidiscono i rapporti, creano fraintendimenti, tensioni, inimicizie. Quel che peggio è che sono amplificate dai social network, che utilizzano, per lo più, la scrittura: da un lato, fanno notare l’impreparazione grammaticale di tanti, dall’altro “possono” (non necessariamente “devono” diventare strumento di tortura, mezzo per infastidire l’altra persona, facendola sentire inutile e inadeguata.
Partiamo dal principio. Ci sono affermazioni, magari anche usate come intercalare che però hanno la potenza di una bomba atomica, specie nelle menti più giovani e in formazione.
«Sei una schiappa!». «Sei un incapace!». «Sei sempre il solito!». «Non sai fare niente!». Quante volte li abbiamo sentiti? Quante volte li abbiamo rivolti a qualcuno. Ci sembrano messaggi scortesi, magari, ma tutto sommato non ci sembra nulla di così grave. Invece sono messaggi distruttivi, particolarmente gravi durante l’infanzia e l’adolescenza perché danno al bmabino o al minore un’immagine distorta in negativo di sé, come “piccolo” e inadeguato, che frena la sua spinta (naturale) a crescere e diventare indipendente. Purtroppo, però, queste frasi deiventano la quotidianità, persino tra adulti, addirittura all’interno di una coppia, dove dovrebbe essere assolutamente prioritaria la più bella delle gare, quella di “stimarsi a vicenda” proposta da san Paolo.

Premetto innanzitutto che, a mio avviso, va fatta indossare una bella corazza ai nostri ragazzi che vanno invitati ad avere la schiena dritta. Nessuno deve permettersi di mancare a rispetto a qualcun altro. Ma, se questo avviene, è perché noi gliel’abbiamo permesso. Per cui, il più presto possibile, trovo sia bene imparino a fare “orecchie da mercante”, perfino nei confronti dei genitori, rispetto a considerazioni ed esternazioni degradanti nei riguardi della loro persona, quando queste sono unicamente dettate dalla rabbia del momento, di fronte a qualche azione avventata. Ma nessuna azione può scalfire l’inalienabile dignità personale, né l’amore di chi ci vuole bene!
Proprio per questo, ciascuno di noi deve, parimenti, essere invitato e proporsi in prima persona di pensare prima di parlare. Perché vedo difficile che tanti adolescenti inventino scherzi e prese in giro con l’obiettivo finale voluto di ridurre l’altro all’esasperazione o, addirittura, al suicidio. É evidente, che, il più delle volte, tali conseguenze non sono cercate né tanto meno aspettate dagli autori degli scherni, che, posti di fronte alle conseguenze reagiscono in modo spesso infanitle, manifestando pienamente tutta la mancanza di maturità in un’abbondante dose d’ingenuità, pressoché priva di qualsivoglia malizia. Ecco perché tutti e ciascuno siamo sul banco degli imputati. Perché è problema comune quello di parlare senza collegare il cervello alla bocca, lasciando scivolare parole che feriscono, ma che non passano dalc ervello e tanto meno dal cuore. E provochiamo dolore, a noi stessi e agli altri, ci feriamo, spesso pur non volendolo. Quando, tante volte, basterebbe davvero poco, come l’abitudine a dare perso alle proprie parole, prendendo consapevolezza del loro significato e delle possibili conseguenze.
Parole dette sono gravi. Feriscono. Ma parole scritte sono forse ancora peggio. Sarà perché verba volant, scripta manent ma è piuttosto frequente che s’inneschi un processo di depotenziamento delle brutte parole ricevute o delle offese. Rifiutandoci di fare le vittime, spesso sminuiamo l’accaduto, pensiamo di esserci sbagliato, di aver interpretato male, capito male, sentito male. Ci attribuiamo colpe altrui, magari, ma finisce il più delle volte che sminuiamo quanto accaduto fino a dimenticarcene. Disinneschiamo la miccia, insomma.
Cone le parole scritte, invece, ciò non si può verificare. Sono là, nero su bianco. Belle o brutte, sono quelle. Non possiamo pensare di aver sentito male. Possiamo ricontrollare il messaggio, il commento, la pagina online. A meno di non collegarci più ad internet, ciò che è scritto, resta. E se anche viene eliminato, qualcuno può averne già effettuato uno screnshoot da conservare, da pubblicare, con cui ricattarci. Lo scritto ha il potere di imprigionarci. Tutto questo potrebbe non essere successo, qualcuno potrebbe aver cancellato tutto per sempre, ma il sospetto basta a far vivere nell’angoscia. Ecco perché anche la possibilità di eliminare contenuti sgradevoli resta una chimera e una pia illusione.
L’educazione ad una civiltà dell’amore è l’unica soluzione che consente, anche nel caso di episodi negativi, di trovare un appiglio, persone in grado di risollevarci, credere in noi a dispetto di critiche e fallimenti e tendere, ancora una volt,a una mano verso di noi. Perché è di questo che ha bisogno l’essere umano. Più di ogni altra cosa, oggi come ieri, l’uomo ha fame di tenerezza!

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