Parole, silenzio. Lo scorrere inesorabile dei giorni.
Parole che si perdono, nel rumore incessante di affannose giornate, tra andirivieni frenetici
Parole evocative, piene, dense. Essenziali.
Una Parola. Sola, eterna. Che risuona nel tempo e nello spazio. Fino a diventare concreta, fisica, palpabile, sensibilmente avvertibile.
Parola indispensabile, nonostante i tentativi di incartarla, di renderla innocua, futile, opinabile.
Puntiamo al ribasso, alla semplificazione, alla mercificazione. Spesso, anche all’interno della Chiesa. Dominata dalla paura di chiedere “troppo”, devastata e sovrastata, d’altra parte, da critiche d’ogni sorta.
Eppure, è la storia stessa a parlare. L’uomo non ama le cose facili. Vuole andare sulla Luna. Vuole guardare le stelle. Vuole sapere se ci sono gli extraterrestri. Sogna di scendere sotto il muro dei 9″ nei 100 piani.
Sogna, sogna spesso. Sogna in grande, senza possibilità di “accorciare” i propri sogni.
Dunque, per quale motivo giocare al ribasso? Per quale motivo pensare, allora, che possa essere buona l’idea di “abbassare l’asta”, grande segno di sfiducia nei confronti di un saltatore con l’asta.
Mentre, forse, proprio dalla fiducia di “volare alto”, può passare la sfida della speranza in un mondo migliore, più bello, più pulito, più coraggioso, capace di affascinare ancora gli occhi e il cuore dell’uomo.
E se, 2000 anni fa, questa Parola – fattasi Persona, in un Uomo di Galilea, che calpestò la nostra stessa polvere, mangiò, bevve, provò angoscia, paura, sofferenza, dolore, amicizia, amore, solitudine – destava tanto scalpore e le autorità “non sapevano come fare, perché tutti pendevano dalle sue labbra”, com’è possibile che, ora, sia così bistrattata? Non siamo forse noi, che, nel tentativo di rendere più digeribile, una parola dura, l’abbiamo addolcita, sì, ma rendendola anche innocua, come anestetizzata?
Non riesco a pensare si tratti di una colpa della società. Perché ogni giorno, in ogni luogo, ci parla di Dio.
Ce ne parla, tacendolo. Ce ne parla, invocandolo. Ce ne parla, bestemmiandolo. Ce ne parla, evitandolo. Ce ne parla, insultandolo. Tentando di costruire un mondo che possa farne a meno.
Non accorgendosi che, al contrario, nell’eliminazione di Dio, la prima vittima è l’uomo stesso: nella vana illusione di essere più libero e più forte, ne esce invece stordito, sminuito e svilito, come un pugile che ha sbagliato la categoria in cui gareggiare. Lungi dall’acquistare la propria, vagheggiata autonomia, rischia di rimanere, defraudato della sua primigenia ricchezza, più povero e solo, derubato anche di quel legame con l’Eterno che dava un significato al cammino fuggevole dei suoi giorni.
Come una domanda sottesa a ogni altro umano interrogativo, nel tentativo di essere celata, finisce con l’acquisire visibilità, divenendo quasi il motore invisibile che muove ogni altro tentativo di proferire parole. Così, in questa epoca, così superficialmente e banalmente additata come priva di Dio, sovrastata da un’etica che ama definirsi “laica” e non riesce a fare a meno di moltiplicare parole e paroloni per sottolineare “rispetto”, “autonomia” e, puntigliosamente, si preoccupa più insistentemente di ristabilire distanze che di creare vicinanze, è proprio nella sua ostentata e proclamata indifferenza a Dio che risuona maggiormente l’ineluttabile desiderio, iscritto nel cuore dell’uomo, di farsi familiare di Dio.