Gesù in preghiera. Possiamo solo immaginare lo spettacolo che i discepoli godettero in diretta. La visione fu così imponente che, un giorno, glielo confessarono: «Insegnaci a pregare». Forse era questo che Lui sognava mentre pregava: che gli chiedessero “insegnaci a pregare”. Da questa domanda, che ha trovato risposta, è sbocciata per bocca di Cristo la preghiera del Padre Nostro. Una preghiera da gustarsi leccandosi le labbra dopo aver declinato ogni singola parola.
Dalla parola-d’ingresso, scandalosa: quel chiamare Dio Padre che ha messo sotto-sopra l’idea stessa di Dio. Dio è Padre: papà. Penso a Dio: lo immagino riflesso nel volto di mio papà. Sono ritornato, per riuscire a partire, da mio papà. Avevamo delle parole-in-sospeso. La sera, abbracciandoci, ci siamo resi conto che questa è stata la più lunga conversazione mai fatta tra noi due in trentasette anni: «C’è sempre una volta in cui accadono cose che non sono mai accadute fino ad allora» dice. Ha occhi blu-marino. Mi sono sentito Telemaco.
Un po’ Telemaco. Quando pensa al padre-Ulisse, di una sola cosa è sicuro: «Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa vorrei che ritornasse mio padre» (Odissea, XVI). Tra Scilla e Cariddi Ulisse sfuggì al mostro, aggrappandosi ad un fico. A migliaia di anni da quell’ora omerica, l’evento mi si è ripresentato: tra Scilla e Cariddi ho incontrato Francesca. Anche lei, come Telemaco, si è messa alla ricerca di suo padre. Se potesse scegliere, anche lei come prima cosa vorrebbe che il padre ritornasse. Mi racconta di lui.
Raccontare padri è necessario, è narrare noi: «La vera natura del raccontare è il desiderio, l’erotismo: andare a scavare là dove è vietato, scendere negli scantinati, nei nascondigli, scavare sotto la trama delle cose». È convintissima Silvia, la mia scrittrice preferita: è una donna che scava, scende, fruga. I padri-in-canottiera – dannati, operai, periferici – abitano le pagine dei suoi romanzi. Ci siamo trovati a Bologna: è stato un piacere conversare con lei, a tu-per-tu.
Nella Lettera al padre, lo scrittore praghese Kafka usa parole dure: «Mi è sempre risultata incomprensibile la tua assoluta mancanza di sensibilità per il dolore e la vergogna che riuscivi a infliggermi con le tue parole, i tuoi giudizi. Era come se non avessi minima idea del tuo potere». Un conto è indicare la strada, un conto percorrerla assieme.
In qualunque parte sia nascosto, c’è comunque un padre nel quale specchiare la nostra sorte. Il volto del Padre non è ancora cancellato del tutto. La maniera evangelica per tenerlo in vita è tenergli cucito addosso quel “nostro”: Padre-nostro. È vero che sta lassù, nei cieli: è anche vero che gli effetti della sua segreta-presenza sono quaggiù, senza l’etichetta del mittente. Presenti, seppur nascosti: cercarli sarà già un pregare-di-sottofondo il Cielo. Cercarlo, perché già cercati.
L’introduzione della puntata, dimenticavo, è di papa Francesco.
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