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Dio, un Padre con una moltitudine di figli e molte “stanze per gli ospiti”: non solo un “Dio privato”, riservato esclusivamente al popolo d’Israele. Una consapevolezza che si fa strada pian piano, nel cuore di un israelita,come Pietro, che è stato fatto pescatore d’uomini:

«In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti» (At 10, 34 – 36).

Una riflessione – rendiconto, che sorge dopo aver vissuto la diffusione del cristianesimo, durante la predicazione del Maestro e dopo la Crocifissione. Mettere in fila tutti gli eventi, avvenimenti e i segni a cui ha assistito, portano il Primo Papa a riconoscere un disegno che va oltre le sue più rosee aspettative. Un centurione, Cornelio, della legione italica (un nostro lontano avo, potremmo, quindi, dire!) si è convertito ed è fedele come gli altri cristiani, pur non partecipando – probabilmente – ancora alla “frazione del Pane”: è infatti menzionato come “pio e timorato di Dio” e protagonista di “molte elemosine”, tuttavia, all’inizio la comunità cristiana è – in prevalenza – derivata da quella ebraica e vi è reciproco sospetto ad ammettere i pagani (a maggior ragione, se della stirpe dei conquistatori romani).
È la realtà che s’impone a Simon Pietro, oltre ogni suo personale progetto. I pagani, i lontani da Dio sono stati toccati da Dio, tanto che, addirittura, hanno ricevuto lo Spirito Santo, prima ancora dell’arrivo degli apostoli. Perché dunque, se già lo Spirito Santo li ha “preceduti”, dovrebbe rimanere ancora senza Battesimo, si domanda, quindi (At 10, 48)?
Tutta questa cornice storica spiega perché la storia personale del centurione Cornelio,che avrebbe potuto essere (e – probabilmente – lo è stata) una tra le tante, assume un significato di particolare rilievo all’interno della narrazione lucana contenuta in Atti, in cui assistiamo alla Chiesa nascente, che muove i propri primi passi, proprio a partire dai “titoli di coda” (soltanto apparenti), che avevano avuto luogo a Gerusalemme.

La lettera ai Filippesi è tradizionalmente legata alle lettere della prigionia di Paolo, con una duplice interpretazione: o prigioniero a Roma (61-63 d.C.), oppure a Cesarea in Israele (58-60 d.C.). La comunità di Filippi è molto legata a Paolo e non gli ha mai fatto mancare il proprio sostegno, tanto che nella lettera traspaiono reciproche fiducia e simpatia. Il capitolo 2 è particolarmente importante, perché, in esso, troviamo importanti contenuti, tutt’ora al centro della teologia e dello studio della figura di Cristo ( in quelli appena precedenti i versetti riportati nel brano liturgico, cioè, 2, 6 – 2, 11, dove troviamo il testo fondamentale sull’Incarnazione e la salvezza arrivata con Gesù).

 

Nel Vangelo giovanneo, troviamo, poi, un richiamo molto più forte di quanto possa sembrare. Il discorso di Gesù, pungolata dalla domanda sull’estensione del Suo insegnamento, ci porta a pensare non tanto a quanto noi ascoltiamo, ma a quanto osserviamo le parole di Gesù, dal momento che Egli stesso sottolinea come consista proprio in ciò il discrimine dell’amore. Non tanto, quindi, ascoltare oppure no; bensì, più specificamente, concretizzare o meno quelle parole che ci hanno ammaliato, attratto, incuriosito, ipnotizzato oppure – eventualmente – annoiato. È una Parola che ci è affidata e a cui siamo affidati. Eppure, non è una parola qualunque, è di origine controllata: certificata dal Figlio, di provenienza del Padre. È nel legame trinitario che s’inserisce l’amore con il quale siamo chiamati a rispondere ad un appello, che parte da una Parola che si fa carne e chiede, quindi anche di incarnare ciò che ne proviene.
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23): amare è prendere dimora: condividere il pane, lo spazio, l’intimità domestica. Questo il desiderio di Dio, per chi decide che la Parola di Cristo, che proviene dal Padre, sia la Luce con cui illuminare la propria vita.

«Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano aver faticato» (Filippesi 2, 14-16)

L’intensa relazione di filiale affetto e sincera collaborazione che Paolo instaura con i Filippesi può farci riflettere, specialmente in questo momento di forzata lontananza anche del rapporto tra i pastori ed i fedeli. Magari, nessuno è in prigione, ma certamente, abbiamo tutti – giocoforza – dimezzato le occasioni in cui potersi vedere, confrontare, condividere la propria fede, spezzare il Pane e sperimentare la presenza di Dio in mezzo a noi. Se neppure la prigionia ha separato il cuore di Paolo da quello dei Filippesi, con annesse difficoltà di comunicazione (all’epoca, senz’altro, meno sviluppate, soprattutto, in queste occasioni), a maggior ragione, dovrebbe essere detto di noi.
Che bello se i nostri sacerdoti potessero guardare a noi come astri che risplendono, per cui possono dire di non aver corso invano (più prosaicamente: di non aver faticato per nulla, dietro a tante scartoffie, senza raccogliere nemmeno un piccolo risultato!)!
Ecco, senz’altro la cifra caratteristica del cristiano è necessario sia la gratuità ed è oltremodo rischioso un cristianesimo narcisistico, che si soffermi su se stesso e sui propri. Tuttavia, è inevitabile notare anche una cosa: un cristianesimo incapace di assertività, capace solo di lagnarsi, rischia di offrire solo la “radiografia” della fede, senza fornirle quella passione e quell’entusiasmo che una foto a colori possono comunicare più di una radiografia.

Siamo peccatori, siamo deficitari, siamo incapaci di vera coerenza, però, tutto sommato, ci proviamo. Proviamo ad acquistare quella consapevolezza che può essere acquisita solo poco alla volta, come ci insegna Pietro, nella prima lettura. Proviamo ad essere ascoltatori attenti, che si rendono conto che, solo mettendo in pratica la Parola di Dio nella quotidianità, è possibile essere luce, sale, lievito. Tutte cose che non hanno bisogno di grandi spazi, grandi visibilità: solo il coraggio di essere come Dio ci vuole, anche laddove la maggioranza va in ben altre direzioni.

 

Rif. Letture festive ambrosiane, nella V Domenica del tempo di Pasqua, anno A (At 10, 1-5. 24. 34-36. 44-48a; Fil 2, 12-16; Gv 14, 21-24)


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Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove

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