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Il perdono: breccia nel cuore infedele

Amore e deserto sono gli ingredienti fondamentali che costituiscono i primi due capitoli del libro di Osea.
Il primo capitolo si apre con l’esplicita richiesta, al profeta, di prendere in moglie una prostituta, Gomer, ed avere dei figli con lei. Fortemente significativi (nomen-omen) sono i nomi che saranno dati ad essi. Il primo figlio si chiama Izreèl: evoca una memoria storica di dolore: il campo di Izreèl (regione montuosa della Giudea) è campo di morte, per Jezebel (2 Re, 36), di cui il Signore vuole punire il re Jehu; ma il significato del nome è anche positivo (“Dio semina”): il destino di morte e distruzione è quindi solo apparente, come è apparente la morte del seme che, nascosto sotto terra, si prepara a nuova vita. Anche la seconda figlia prende un nome che è tutto fuorché beneaugurante: «chiamala Lo-Ruama (cioè”non-Amata”), perché io non avrò più compassione della casa d’Israele in modo da perdonarla» (Os 1,6). Segue un terzo figlio, il cui destino non è migliore, anzi: il suo nome indica il rifiuto più totale: «chiamalo Lo-Ammi (non-mio popolo), perché voi non siete mio popolo e io non sono per voi».

Il nome e il rifiuto

La prima, inevitabile, riflessione è il ruolo del nome, nella nostra vita. Un nome ci è apposto alla nascita, nomignoli e vezzeggiativi si susseguiranno, nel tempo. Purtroppo, talvolta, capita anche che affibbiamo nomi volgari, per offendere le persone. È il procedimento con il quale cerchiamo di togliere dignità dal di dentro, svuotando di significato l’essere umano. Del resto, tanto è importante la comunicazione attraverso la Parola, che, nella Genesi, la Parola di Dio è creatrice (vd. Genesi 1).
Secondariamente, lo sguardo si sposta sul rifiuto e la sua drammaticità. Rifiutato dal popolo, anche Dio decide di fare un passo, rigettando l’alleanza sancita sul Sinai (Dt 26,16-18). Questa pagina risulta attualissima. È infatti il rifiuto il nucleo centrale della sofferenza umana, in ogni tempo ed in ogni luogo, ma pare particolarmente evidente in quest’epoca. Il rifiuto di un figlio e nella sua promessa di futuro si esplica nel dramma dell’aborto. Il rifiuto della malattia e la sua possibilità di vivere la Bellezza, nonostante la sofferenza, porta al dramma dell’eutanasia. Il rifiuto di una progettualità condivisa, conduce al divorzio e alla rinuncia alla stabilità dei rapporti, con tutto il dolore che ne consegue, come fallimento personale e come strascico sui figli.

Eppure, subito dopo queste parole così gravi di rifiuto totale, arriva, invece, inaspettata la speranza. Invece che dir loro, come si diceva: «Voi non siete mio popolo», sarà loro detto «Siete figli del Dio Vivente» (Os 1,10)

Un castigo, ma per la vita

“Il castigo di Dio non è mai l’ultima parola; esso è sempre per la vita, in vista di un riscatto, non è per la morte, ma per la vita” (A.M. Canopi). Dopo aver detto di aver rigettato Israele, dirottando la propria eredità verso Giuda, precisa invece di rivendicare, invece il proprio popolo, tutto intero, per sé.  Dio rimane fedele. A se stesso ed alla propria promessa. Nonostante tutto, nonostante le infedeltà, la promessa si realizzerà. Gomer (immagine del popolo d’Israel e – per noi – immagine della Chiesa, ma anche di ogni singolo credente) è messa di fronte alle proprie colpe, mancanze e superficialità. Il profeta (qui, immagine di Dio stesso) la ama, malgrado le sue prostituzioni.

Il primo passo di Dio

Ecco perché, nonostante le infedeltà è Lui stesso a fare il primo passo, ad impegnarsi per riconquistarla, affinché ella comprenda quanto sia amata e ritorni, quindi, da lui. Inizialmente, di fronte all’allontanamento del popolo, che segue gli idoli cananei, Dio, vorrebbe abbandonarlo al proprio destino. Dio, però non riesce a staccarsi. Se l’amore dello sposo per la sposa, nel Cantico dei Cantici, è descritto come forte quanto la morte, quello di Dio per il proprio popolo, va oltre: è più forte persino della morte. Perché tale è – in sostanza – la volontà di cancellare completamente la presenza di Dio nella mia vita. “L’amore non è questione di meriti, mai” scrive Giorgio Ponte nel suo “Giairo“. È la conferma che troviamo nel libro di Osea.
Come nella parabola del Padre Misericordioso (Lc 15), anche qui c’è di mezzo un ritorno, che può avvenire solo dopo aver sperimentato la solitudine e l’abbandono. Il peccato inizialmente risulta piacevole, appagante: porta con sé il gusto adolescenziale del brivido della trasgressione. Il figlio minore ritorna in sé, solo dopo aver assaporato l’amarezza della solitudine, i morsi della fame e la mancanza di dignità, arrivata fino al punto da fargli desiderare delle carrube che i porci (che portava al pascolo) mangiavano.

Il deserto, per fiorire di nuovo

«Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Osea 2, 16)

È necessario attraversare un deserto, per trovare la vera vita. Fu così nell’Esodo israelitico (Deut 5), fu così per Gomer e, spesso e volentieri, è così anche per noi. Anche noi abbiamo bisogno del deserto, per riuscire ad avvertire pienamente ciò che manca. Il deserto è una situazione – limite in cui ci veniamo a trovare, per cui, spogliati di tutto, dopo aver fatto terra bruciata di ogni superfluo, è possibile affrontare con realismo e senza sotterfugi, i problemi della relazione in crisi. Solo così è possibile ricordare gli albori di tutta la storia e fare chiarezza nel nostro intimo.

«Vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza.» (Benedetto XVI, omelia di insediamento, 24 aprile 2005)

La pedagogia del deserto

Il deserto mostra la pedagogia di Dio, all’opera, che esige la fatica della conversione, per riportare alla memoria la freschezza del primo incontro, quello che aveva fatto battere il cuore. Conduce l’amata verso di sé, lontano dalla folla, da qualunque possibile distrazione, per poterle parlare, sotto voce, come fanno gli innamorati: cosicché lei ascolti realmente, con rinnovato interesse e con viva attenzione. Cosicché lui possa finalmente comprendere cos’alberghi nel cuore di lei e cosa l’abbia fatta allontanare.
«Mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: Mio padrone» (Os 2,18): il secondo “viaggio di nozze”, con annesso chiarimento, porta i propri frutti. L’amore era avvelenato dall’incomprensione. Convinta di essere schiava, cercava la libertà tra gli amanti e i loro costosi doni (Os 2,14), perché non aveva capito che il vincolo d’Osea era d’amore e non di schiavitù. Come il servitore della parabola dei talenti (Mt 25, 14-30) che, reso libero e padrone dei propri beni dal datore dei beni, ha continuato a vivere da schiavo e, malfidente, ha preferito sotterrare il proprio talento, piuttosto che investirlo nel Bene.

Mio!

«Io li seminerò di nuovo per me nel paese e amerò Non-amata; e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio, ed egli mi dirà: Mio Dio» (Os 2,25)

In questo finale del capitolo secondo, “mio” è aggettivo che ritorna sulla bocca, quasi cadenzato ritornello di un cantico del ritrovato amor perduto. Lungi dall’essere brama, è – piuttosto – garanzia di custodia. “Sei mio, perché sei parte del mio cuore: mi prendo cura di te, anche al di là della gratitudine che mi dimostri, vorrei la tua felicità ed il tuo vero bene e, per questo, vorrei difenderti tutto, persino da te stesso, se solo fosse possibile!”.
Osea, nel terzo capitolo, decide quindi di riprendere con sé, nonostante tutto, la sposa infedele e i figli avuti avuti da lei. Così è la storia di tutta l’umanità, una storia fatta di patti stretti, rotti e ricomposti nuovamente, nell’alternarsi delle inevitabili infedeltà del nostro incostante amore.

Amore e deserto

Non esiste matrimonio senza deserto, non esiste amore senza solitudine, non esiste incontro senza separazione. È la grande e faticosa storia di ogni esperienza d’amore, al di là del matrimonio, perché ogni amore è improntato sullo stesso modello. (A. Chieregatti)

(continua…)

Vedi: Osea e la pedagogia di Dio (introduzione)


Fonti:
Arrigo Chieregatti, Osea. Lettura spirituale. Bologna, EDB, 2012.
Anna Maria Cànopi, Là parlerò al suo cuore – lectio divina sul libro di Osea. Milano, Paoline, 2005

Fonte immagine: dreamicus

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