L’hanno bollata all’istante come una squallida questione di “bordelli a luci rosse nelle galere”: è la solita manovra di abbassare il peso di una questione capitale a livello di pancia-pisello, così da ridicolizzare un tema umanamente delicato come quello dell’affettività in carcere. L’audizione che qualche giorno fa si è tenuta in Commissione Giustizia in parlamento, e che ha visto collegati via skype un gruppo di detenuti dal carcere di Padova, aveva come intento tutt’altra cosa dal legalizzare il sesso sfrenato dentro le galere: a tema c’era la questione dell’affettività nel periodo in cui una persona sconta la sua pena. Non tanto la gestione dell’apparato riproduttivo maschile, quanto la delicata richiesta di poter fare uso appieno di un altro organo: il cuore, per l’appunto. Chi ama confondere questi due piani – sotto il solito nome patronale della “certezza della pena” – offende prima di tutto la sua capacità intellettuale: la sessualità è un aspetto dell’affettività, l’affettività è molto più vasta. E’ lo stesso rapporto tra la caldaia di casa propria e l’intero stabile: ragionare sulla caldaia da cambiare è un conto, mettersi a disquisire sulla gestione dell’intero immobile è tutt’altra cosa.
Lo percepisce chi ogni giorno, libero di non entrarci affatto, decide da sé di varcare la porta delle galere per scommettere nella risurrezione dei viventi, invece che attendere con le mani-in-mano la risurrezione dei morti. A costoro appare chiaro che la dimensione affettiva è rimasta l’ultima grammatica capace di parlare a delle storie deragliate e inariditesi nel lungo tempo delle detenzione. Perchè battersi per gli affetti in carcere significa battersi per cose così piccole per cambiare le quali non serve un referendum, basterebbe un po’ di logica: la possibilità di ricevere un bacio dalla propria donna, di poter telefonare a casa quando il cuore ne avverte la necessità, di fare in modo che i figli possano crescere sapendo di poter contare sulla presenza di un padre, che i colloqui familiari siano svolti in una maniera degna di un paese civile, che una madre abbia tutto il diritto di appartarsi con suo figlio e di parlargli con i gesti folli dell’amore bambino. Piccole cose che, però, possono cambiare totalmente la vita delle persone condannate ad una pena. Non per nulla la paternità di questa battaglia così ostica nasce dal cuore di una donna, Ornella Favero, quasi a dire che per capire certi meccanismi occorra nascere donna: solo chi cammina quotidianamente nel fango assieme ad un popolo potrà un giorno liberare quel popolo dalla schiavitù. Lei il carcere lo conosce molto bene, sa di cosa parla quando parla, legge lo strazio di figli-maschi ai quali è tolto il diritto alla tenerezza. Anche a lei devo la conversione del mio sguardo: l’aver imparato ad accorgermi che dietro le sembianze di un carcerato c’è una famiglia carcerata, la sua: il padre può essere responsabile di un gesto delittuoso, ma ad un bambino piccolo non è umano accollare il peso di una colpa non cercata.
Perché, dunque, battersi per il diritto all’affettività di questa gente? Per due piccoli motivi. Il primo: solo l’affetto può mettere una persona nelle condizioni migliori che le permettano di decidere con serenità del proprio futuro. La seconda, per chi ama vendicarsi sui cattivi: amare l’uomo quando meno se lo merita – e riservargli un trattamento d’uomo quando lui per primo non s’è comportato da uomo – è quella vendetta amorosa che, sola, è capace di far crollare un intero sistema umana di cattiveria. Due motivi così piccoli che, da soli, potrebbero un giorno far uscire dal carcere una persona diversa da quella che era entrata: più educata, meno rabbiosa, più affettuosa verso la società. Continuare a confondere il diritto all’affettività con l’uso della genitalità più che mancanza di rispetto è una forma di cretineria intellettuale. Per uomini-slogan.
(da Il Mattino di Padova, 8 novembre 2015)