C’è il sorriso del venditore. Il sorriso del candidato elettorale. Il sorriso di circostanza.
E il sorriso semplice, il sorriso dell’uomo, dov’è?
Esiste ancora un’autenticità, possibile e proponibile, sperimentabile nel quotidiano?
È questa la domanda che s’insinua, non fermandosi alla semplice ostentazione e alla svendita di sé, ormai in atto in ogni campo. Le persone perdono di valore: sono “gestite”, “prese”, “portate” come si trattasse non più di un soggetto attivo e dotato di intrinseca dignità, ma di un oggetto, passivo, inerte, incapace di opporre resistenza o esprimere idee o valori. Ininfluente e accessorio.
Penso alla convenienza e alle varie richieste a cui è necessario sottostare per “dovere sociale”, dai banali pranzi in famiglia alla necessità di pensare alla propria reputazione, che dev’essere di “persona per bene”.
Cliché, luoghi comuni e quant’altro ci impongono di essere quello che ci è richiesto. Che non sempre corrisponde a ciò che siamo o vorremmo essere.
Alienati e incapaci di guardarci negli occhi, siamo ormai cinicamente immunizzati a ogni delusione, non più disposti a lasciarci prendere in giro, ma soprattutto restii a concedere davvero fiducia, trattenendo sempre qualcosa di noi, gelosamente conservato e nascosto a tutti. Così nascosto che fatichiamo a vederlo anche noi: siamo così abituati a dissimulare per difenderci, che facciamo fatica ad essere nudi perfino con noi stessi.
Ci nascondiamo ingiustizie e fallimenti, rabbia, paura e frustrazione. Non ci guardiamo più allo specchio ed è ormai un’impresa titanica offrire agli altri un’idea realistica di noi: dopo esserci dipinti come supereroi, con che faccia potremmo poi uscire allo scoperto, chiedendo aiuto, mostrandoci fragili, bisognosi, poveri? Eppure, da soli, siamo effettivamente più poveri che con gli altri…
E allora non si chiede. E assaporiamo la solitudine dei nostri giorni: quella di chi si sente in diritto di affermare di avere molti amici, quando in realtà non ne ha nessuno, per la paura di attraversare la profondità dei sentimenti e delle relazioni.
E, a volte, non è colpa di questo o di quell’insensibile che calpestano i nostri sentimenti, lasciandoci soli nel momento del bisogno. A volte, siamo noi responsabili in prima persona. Per eccesso di leggerezza, smodata voglia di divertimento, superficialità o scarso interesse, non prestiamo la dovuta attenzione a quei dettagli che fanno la differenza. Troppo presi dal difenderci da fantomatici “pericoli” in arrivo, non notiamo chi si muove nell’ombra – non per paura, ma per delicatezza e discrezione! –. Non ci accorgiamo di tutti quegli amici che, senza far chiasso, ci benedicono (dicono–bene di noi…), ci assistono e si prendono cura di noi. Magari, con quella ruvida tenerezza e quell’apparente noncuranza, che siamo talvolta portati a scambiare per fredda indifferenza.
Quante volte i fatti ci hanno dimostrato che le persone erano diverse da quel che eravamo riusciti a cogliere fino a quel momento? Quanto riusciamo davvero a cogliere di ogni persona, e quanto ci sfugge, quasi a suggerirne l’incalcolabile valore, inquantificabile per la sua irripetibilità?
L’uomo sembra ritrovarsi spossato sotto le sue quotidiane fatiche, inquinate dai compromessi in agguato, dalla necessità di dover essere “forti per forza”. Sotto tutto questo, pare perdersi, smarrito, alla ricerca di qualcosa.
Oltre la deriva di menzogna e verità, oltre ipocrisie e tornaconti, oltre la paura e l’insicurezza, oltre le umane fragilità, oltre il difficile (sovrumano?) perdono, c’è ancora qualcosa da cercare.
Cosa c’è sotto tutto questo? Dov’è l’uomo?
A teatro c’è il sipario che nasconde le quinte.
Anche l’uomo si ritrova spesso addobbato di fronzoli inutili, fastidiosi, che lo ingabbiano e ostacolano il dispiegarsi della sua vera libertà. Ma non lo annientano.
Spesso, l’uomo è come una cipolla: è necessario sfogliare parecchi strati, per coglierne la vera essenza. A noi, la sfida, ogni giorno, di non fermarci al primo, al più visibile, al più avvicinabile. Al più “facile”.