Ogni tanto capita. Dentro al vissuto di ogni giorno, tra le pieghe dei rapporti che si logorano, mentre il tempo li consuma e ne trae il peggio. Tra gli anfratti di una quotidianità che si fa stanca e fredda. Amici, conoscenti, colleghi, datori di lavoro. A volte, persino compagni di vita.
Più l’affetto è grande e più la persona è vicina al nostro cuore, maggiore è la delusione che lascia.
Delusione derivata da motivi che possono essere i più diversi, ma che sono in realtà riconducibili ad un unico aspetto: il tradimento della fiducia.
La delusione nasce quando pensavi di poterti fidare di qualcuno in quel ruolo, per quel compito, per un favore, per un aiuto. Magari la disponibilità c’è anche stata. A parole, la disponibilità era immediata e illimitata. A parole.
L’ipocrisia non abita l’odio, perché è un male più subdolo, che serpeggia in modo incontrollato tra le azioni più naturali.
Il primo passo è quasi sempre l’abuso delle parole, che vengono piegate a piacimento secondo i propri scopi, in modo più o meno consapevole. Plasmare il significato, forgiare una declinazione diversa genera innanzitutto confusione, poi la difficoltà di percepire e discriminare il vero dal fasullo: anche se è solo un romanzo per ragazzi, si tratta di una situazione ben delineata da “La storia infinita” di Michael Ende:
«Solo il nome giusto dà a tutte le creature e a tutte le cose la loro realtà»
Forse, tra tutte le parole esistenti, amicizia è la più abusata ed oltraggiata. Il problema è, come spesso accade, l’inflazione: estenderne il significato in modo immotivato ha come unico risultato la sottrazione del suo valore a ciascuna delle persone alle quali è attribuito.
Se amico è, indifferentemente, il compagno di bevute al pub, la persone che sai di poter chiamare in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo perché per te c’è sempre, l’oltraggio lo subirà, magari involontariamente, ma lo subirà chi rispecchia concretamente quella parola, incarnandola nel proprio essere. Non è una regola, ovviamente, ed è difficile, del resto, stabilirne, ma spesso è vero che chi si riempie la bocca di amicizia, in genere non ha ben presente di che si tratta, nel migliore dei casi, oppure sa perfettamente cosa sia, ma se ne guarda bene dal caricarsene le conseguenze di rispetto, responsabilità e reciprocità che comporta. Come gli scribi del Vangelo: legano dei fardelli pesanti e li mettono sulle spalle della gente; ma loro non li vogliono muovere neppure con un dito (Mt 23.4). Questo è un atteggiamento purtroppo molto diffuso e la conseguenza peggiore è l’illusione di chi, con animo semplice, ma al contempo nobile, si fida delle parole, si affida alle persone, ritenendo di potersi aspettare fatti concreti come seguito di parole tanto incoraggiante piene di buoni propositi.
Non so se l’amicizia sia la grande incomprensione del secolo, se sia un’incomprensione atavica e senza possibilità d’essere sanata o, ancora, se sia solo un sentimento che, ricercato per la sua purezza e le sue potenzialità, attira al contempo quegli sciacalli che sono incapaci di mettersi in gioco sul serio, arrivando al rischio estremo ma necessario di dover anche fare una selezione. Che spesso non è un atto diretto, ma indiretto, dovuto al proprio vissuto, alle scelte proprie e altrui, alla condivisione di idee o progetti, alla constatazione di dove si trova un “posto da abitare”. Perché alla fine, senza tanti giri di parole, si tratta precisamente di questo.
Comprendere che non tutti sono miei amici, non significa provare odio o rancore nei loro confronti, ma semplicemente rendermi conto che non con tutti si è sviluppato lo stesso rapporto, la stessa confidenza, lo stesso grado di affinità, di comprensione reciproca, di aiuto, di consonanza di carattere e d’interessi. Difficile esprimerlo a parole, ma si tratta, in sostanza, della realizzazione di quel mix che con alcuni dà luogo ad una creazione armoniosa e densa di significato e con altri invece comporta squilibri interni ed esterni che fanno sì che il risultato sia instabile e poco armonioso. Non è nulla, è senza dubbio qualcosa: ma si tratta di un qualcosa che ha caratteristi completamente differenti da quello che va inteso come amicizia.
Comporta una discriminazione? Sì, la comporta, nel senso più meraviglioso del termine. Discriminare significa rendersi conto che ci sono delle differenze. Se le differenze non esistono, allora non ci sono sfumature: siamo tutti uguali ed intercambiabili, cioè la nostra presenza è totalmente ininfluente. Chiunque al nostro posto otterrebbe lo stesso. Contrastare quella discriminazione salutare che corrisponde ad un criterio di verità equivale a svalutare la persona e la sua ineguagliabile unicità che la rende qualcosa di assolutamente irripetibile e non rimpiazzabile in alcun modo da alcuna persona.
Penso però che, tutto sommato, sia abbastanza inverosimile che non sia possibile accorgersi di queste differenze che, ad un occhio attento, non possono sfuggire. Si tratta forse, in buona o cattiva fede, del desiderio di realizzare per estensione quanto forse risulta troppo impegnativo realizzare per intensione.
È senz’altro complesso, infatti, accettare un’amicizia radicale e profonda, perché richiede dedizione totale, sincerità e quell’intento quasi autolesionista di volere il bene dell’altro. amare davvero comporta anche la scelta difficile di porgere all’altro la verità nuda e cruda, se serve anche con la sua asprezza, perché ciò che preme al nostro cuore è il suo disincanto, più ancora di una gratitudine che, spesso, non solo non è facile da esternato, ma il più delle volte non è assolutamente vissuta (dal momento che, se una critica è vista come offesa, non vi sarà gratitudine alcuna per il tentativo di mettere in guardia da parte dell’amico).
D’altro lato, però, è anche vero che chiunque, guardandosi dentro ed intorno si troverà, giocoforza, a fare una conta di chi sono le persone sulle quali poter contare in caso di difficoltà. Non si tratta di dover fare le “piaghe” della situazione o di pianger miseria; so bene che ci sono tante persone che evitano con cura di dar noia al prossimo e tendono, piuttosto che coinvolgere qualcuno, a tenersi angosce e preoccupazioni tutte per sé. Ma anche in questo caso, in un momento di grande spossatezza, credo che tutti abbiamo pensato: “Ecco, se volessi, a lui/lei potrei telefonare adesso, anche se è l’una di notte ed ha anche più problemi di me”. Potrebbe darsi che a quel pensiero non sia seguita telefonata alcuna, ma è quel pensiero che ci restituisce l’idea della fiducia che possiamo riversare su quella persona: sappiamo di poter contare su di lei, in qualunque momento. È una consapevolezza che consola.
In caso di dubbio, sono le piccole attenzioni a fare la differenza; quelle facezie la cui assenza o presenza ha un peso specifico superiore a tutti i trattati del mondo sull’argomento esistenti o ancora da scrivere.
Questa frase è la discriminante che ci rende certi di chi possa essere considerato amico e chi no. Non è un giudizio negativo su quella persona, ma semplicemente la constatazione sulla consistenza e sulla natura del legame che tiene uniti. Perché l’autenticità di un sentimento si alimenta della verità che esso contiene e si esprime sia attraverso espressioni verbali che non verbali e concrete.