Oggi è la festa dei Santi Martiri Innocenti. Una festa importante, in questo periodo del Natale, che non può evitare di far riflettere.
Martiri Innocenti. Martiri bambini. Bambini che davano fastidio. Atterrivano, addirittura.
Penso a come questo atteggiamento sia tanto diffuso.
C’è qualcosa di strano e, per certi versi, non immediatamente spiegabile. Almeno ai miei occhi. Tutto ciò che dovrebbe, stringendo un nodo alla gola, “istigare” la tenerezza, finisce col favorire la perdita di ogni sentimento di pietas.
Proprio la condizione di fragilità che dovrebbe essere portatrice di quel sentimento di empatia, di vicinanza spirituale per quella evidenza di dipendenza (quella consapevolezza che bisbiglia, in cuor mio: “tu, senza di me, non riesci a vivere”), conduce invece al rifiuto; quasi, oserei dire, al disprezzo.
Espressione troppo forte? Come chiamare, allora, quella offesa alla stessa dignità umana per cui alla persona di cui si discute è tolta la sua appartenenza alla famiglia umana? La sua vita non è più sua. Toltone il possesso, eliminatone ogni aggettivo, viene negata (prerequisito culturale indispensabile per ricevere “avallo a procedere nel concreto”) la possibilità stessa di vita.
La fragilità che provoca il terrore, la paura, l’annichilimento.
La consapevolezza della fragilità altrui mostra la propria. Se non la nostra finitezza.
E questa paura del nostro scoprirci limitati, del poter essere “non-infiniti” arriva ad atterrirci.
Questa paura, intendiamoci, da un certo punto di vista, è anche comprensibile. L’altro-fragile, l’altro-debole non solo mi apre gli occhi sulla fragilità, spogliata di ogni connotato teorico e teoretico e rivestita delle più concrete e impellenti implicazioni del reale tangibile, ma me li spalanca con animosa violenza sul mio, personale, poter-essere-fragile.
E allora, la domanda sorge spontanea: che cosa provoca, davvero, dolore in me? Che cosa mi lacera fino a pensare l’impensabile?
Ho orrore della fragilità? O ho orrore del mio essere fragile, che in quella fragilità si riflette implacabile?
Che cosa mi spaventa davvero: Vedere la fragilità prendere forma umana? Oppure la sensazione di credere di essere troppo debole per “portare su di me” il “peso” di questa fragilità? O, meglio ancora, il “peso di sentirmi un peso”?
Se confrontiamo quelli che oggi sono detti i territori-confine della vita, cos’hanno in comune?
La fragilità, la loro condizione di dipendenza e la difficoltà di comunicazione per cui noi discendiamo – con ragionamento, in verità, ben lungi dal poter essere considerato logico in senso assoluto – che essi non possano essere, per così dire, detentori e, dunque, fruitori della libertà di scegliere.
Perché ritenga un azzardo tale affermazione è presto detto.
1. L’impossibilità di comunicare non può significare automaticamente l’assenza di volontà o libertà. Casomai, posso spingermi a constatare la nostra impossibilità a coglierla – il che è ben diverso –.
2. Ogni libertà o, meglio, ogni atto che la dimostri, è del tutto stroncato dalla soppressione della vita. Dunque, la ribellione è impossibilitata dalla cessazione delle funzioni vitali. Ma, certo, non per questo, potremo mai dire che i pellerossa uccisi fossero d’accordo con chi ne aveva espropriato i territori…
Partendo dalla vita prenatale , la giustificazione razionale tende a portare ad una direzione ben precisa.
Quali sono le giustificazioni per tale atto? «Non era in programma», «la ragazza è troppo giovane, non sarebbe una buona madre», «entrambi siamo in carriera».
Dunque, difficilmente la “colpa” ricade sul diretto interessato; tuttavia, pur senza essere gravato da colpe, è ugualmente destinata a lui la “pena”.
Dunque, la causa è al di fuori di chi subisce gli effetti della scelta effettuata tramite l’esercizio della libertà. Non abbiamo, già così, un notevole contorsionismo logico, per cui l’oggetto che subisce gli effetti dell’azione non è poi il soggetto che la causa?
Allora, se il problema non è il bambino, ma è il bambino a costituire il problema, non c’è forse un modo errato di affrontare la questione?
Se il problema – siamo noi stessi ad affermarlo – non è il bambino, ma siamo noi, la casa, l’affitto da pagare, l’età, il momento inadatto, non è forse l’approccio a dover essere capovolto?
Ovvero, la domanda che mi devo porre è: perché quel bambino mi spaventa? Perché ne sono annichilito? Perché ciò che nel corso naturale degli eventi è, per antonomasia, il lieto evento, per me, che lo guardo come possibile aborto, è diventato tutt’altro?
Se è lo sguardo con cui guardo l’altro a dirmi chi sono, non dovrei, per prima cosa, domandarmi come io lo sto guardando e, quindi, chi dimostro di essere con quello sguardo?
Giungiamo alla condizione di un essere umano completamente dipendente, arreso e affidato alle cure d’altri. Con o senza consapevolezza sua, la nostra di certo non ha scusanti: noi sappiamo bene che quella vita dipende dalla nostra. Che quella vita non può urlare. Eppure quel silenzio ci attanaglia l’anima. Perché?
Noi vogliamo fare il suo bene, eppure vorremmo evitare di guardare quegli occhi. Perché?
Noi diciamo di difendere la sua libertà, eppure diciamo che noi al suo posto non ci staremmo, e non che non ci starebbe quella persona.
Parliamo di una terza persona. Eppure il dolore è il nostro. La paura è nostra.
E allora, anche in questa occasione mi domando, e non posso evitare di farlo: chi vogliamo davvero preservare?
Ecco, giunta a quest’ultima domanda, mi sento in dovere di apporre una precisazione.
Ho parlato di tutto con una prima persona plurale che sa tanto di plurale maiestatis. E invece è il collettivo di un’umanità che vedo nella sua fragilità. Una ricerca, affettuosa e sincera, di universalità nell’unica fratellanza umana.
È normale pensare di preservarsi. Normale illudersi che eliminare il dolore sia un bene, una conquista per l’umanità. Normale anche aver paura della fragilità. E sono io la prima ad ammetterlo. Con vergogna anche. Ma, volendo essere onesta, mi è impossibile evitarlo. Anche se so che potrei essere una persona migliore di come sono.
Eppure, mi sto accorgendo di come nella fragilità risieda una grande ricchezza. Ricchezza fatta di piccole cose, istanti forse da nulla, nugae, cose di poco conto.
Quel nulla che ti riempie la vita. Quel nulla che, quando non c’è più, lascia un vuoto che, inspiegabilmente e misteriosamente, resta sempre più grande di quel che riempiva in precedenza.