Storie di faticosa bellezza, piedi che custodiscono paesaggi lontani, mani che trattengono respiri di terre inospitali, occhi che raccontano di incontri fatti al largo di una via, sotto il chiaror della luna, tra le braccia di una bellezza inattesa. Ti raccontano di notti senza lune, ma anche di lune senza notti. Sono loro, i miei vecchi, custodi gelosi di una storia che hanno scritto, tramandato, fatto camminare. Ignorarli significa semplicemente voler rimanere bambini, perché “nescire quid antea quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum” – diceva il latino Marco Tullio Cicerone -. Fidandoti unicamente dei loro passi è bello sentire che l’uomo non è faber ipsius fortunae. Bensì come un bambino che sa stupirsi di fronte al mondo.
Di loro m’incanta tutto: le gambe intervallate dalle vene, il sorriso intagliato tra le rughe, le mani rugose di mille strette, il profumo della vecchiaia, la tenera stanchezza di uno sguardo. Fossi poeta, però, passerei la vita a celebrare la bellezza dei loro piedi: nudi di fronte al mondo. Ci son cose troppo complicate da interpretare che mi fanno sentire l’esigenza di camminare con un vecchio vicino: tropo giovani i miei piedi per intenderle da solo. Perché le piramidi – direbbe Hazlitt – “sono troppo grandiose perché si possa contemplarle da soli”. Piedi vecchi che hanno attraversato paesaggi, parole, emozioni e lontananze. Non piedi arroganti come quelli che accelerano. Piedi umili perché custodi di emozione e di terrore.
I piedi di Nin dea Sima ho imparato ad ascoltarli sin da bambino seduto sulle gambe del mio nonno: erano piedi che mi facevano arrabbiare perché arrivavano sempre improvvisi, non c’erano rumori ad anticiparne la venuta. Viandante come tanti – forse troppi nella sua famiglia – s’era allenato a spolverare il pensiero nelle lunghe marce. Per guerra, per emigrazione, per semplici amori da tessere. Sempre a piedi: modellandoli al suolo da calpestare. Anche così sembra potersi scrivere la storia: con le mani ma pure con i piedi. Quassù, oserei dire, la storia è scritta più con i piedi che con le mani, perché la storia di questo terra profuma di tanti percorsi, incontri, scontri. E’ storia di vita!
Ogni tanto m’imbatto in qualche anziano che deve immergersi nella confusione della città: ancora innaffiato di silenzio sembra violentato dal frastuono della civiltà. Lui, abituato ad assaporare la voce che procura il crescere del grano, il leggero vociare dei fili d’erba, il lento nascondersi della rugiada al luccichio dell’alba …scopre che nella città il silenzio non è sinonimo di interiorità, ma mancanza di tecnica. Si fa silenzio quando la macchina non s’accende, quando la tv salta, quando c’è un black-out: ma non è silenzio, bensì semplice mancanza di rumore. Ma che basta per farci prendere paura!
Quando nelle sere d’estate m’appoggio sulla soglia del mio casolare, dodici campanili mi musicano la buona notte. La loro voce, spinta dal muto silenzio della valle, giunge fin lassù: oltre i faggi, sotto quei pini che raccontano storie di uomini che hanno camminato.
Camminato in silenzio: impresa doppiamente estimabile.
Perché – dicono loro – è necessario saper tacere per diventare uomini dalle parole pesanti.

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