giorgio napolitano 04

Come una donna annunciata che ritarda la sua apparizione sull’uscio della casa: chi sta accampato fuori viaggia tra attesa e desiderio, ansia e speranza, disperazione e mistero. Così è della primavera che quest’anno sembra tardare: il bocciare di timide gemme in febbraio c’aveva illusi dell’ormai prossima venuta, quel lento ritirarsi delle nevi ai primi di marzo è stato presto tradito da copiose nevicate, del timido biancore dei ciliegi rimane oggi traccia nelle gemme bruciate dalla pioggia d’aprile. Annunciata a più riprese, puntualmente quest’anno ha tradito le aspettative, lasciando come eredità di questo apparente ritardo un desiderio più acceso dei mandorli in fiore, dei bucaneve colorati e dei primi voli di rondine che annunciano il cambio di stagione. Che tardi la primavera non significa, però, che la natura sia defunta. Sotto la coltre della neve e l’umidità della pioggia c’è tutto un mondo silenzioso che si sta organizzando: le pernici e gli usignoli stanno facendo le ultime prove di canto, le volpi e i cervi stanno tracciando le loro traiettorie, il tasso e le marmotte stanno lavandosi il viso e pettinandosi le teste, i rododendri e le betulle sono tutti presi dalle prove dei nuovi vestiti, le rondini e le aquile si stanno spartendo egualmente gli spazi aerei, le cicale e i grilli stanno accordando le ultime note dei loro pentagrammi musicali. E la primavera, come una madre gelosa della liturgia del suo parto, custodisce i riti e le liturgie che agli uomini sono preclusi: saper intravedere sotto il grigiore della neve l’arcobaleno della primavera è arte dei poeti, degli artisti e dei sognatori.
La primavera della natura quest’anno è metafora di un’altra primavera: quella della speranza italiana che sembra faticare a sganciarsi dalla rigidezza dell’inverno per lasciare spazio ai primi soli d’aprile. Anche qui c’eravamo illusi – forse spinti dalla primavera della Chiesa che in Francesco sembra aver ritrovato la tavolozza e i colori di una nuova speranza – che la primavera fosse sbocciata a febbraio, appena dopo le elezioni. L’alfabeto c’era: rinnovamento e rottamazione, cambiamento e innovazione, stanchezza e giovinezza, ansia e trepidazione. Una primavera, però, ch’è valsa solo lo sprazzo di qualche giorno: ciò che è rimasto è l’illusione di una nuova stagione che tutti sognavano e che adesso sembra tardare. Eppure, come anche nella natura, anche qui sotto l’apparente inverno si sta organizzando una nuova trama che è poi l’annuncio di una battaglia: la lotta tra gioco e responsabilità, tra passato e futuro, tra solitudini eroiche e massificazioni annoiate. Tra la serietà di chi ha a cuore il bene comune e chi del bene comune ha fatto il suo gioco all’ora della merenda. Anche qui giunge l’eco di “prove generali” in atto: voci nuove che tentano l’accordo, sapienza di vecchi condottieri che tesse trame di novità, sete ardente di un alfabeto nuovo con il quale scrivere pagine giovani di storia quotidiana.
C’erano occasioni di primavera: l’inesperienza o la gelosia le hanno bruciate. E non hanno trovato àncora di salvezza più affidabile se non nella vecchiaia saggia di Giorgio Napolitano, uomo avvezzo alla ricostruzioni di trame e alla certosina pazienza del monaco. Il suo ritorno non ha certo addosso il profumo del potere, quanto la paterna sollecitudine di un vecchio nonno incapace di trastullarsi mentre i suoi nipoti abitano le tenebre dell’incertezza. La sua disponibilità non è sinonimo di primavera, ma è un “anticipo” di primavera: la primavera sarà possibile solo se chi l’ha eletto saprà far suo quel senso di responsabilità che oggi è rimasta l’ultima grammatica di un urgente riscatto. Perchè se è vero che le prove rinsaldano lentamente la virtù degli uomini, è altrettanto vero che bisogna aiutare la liberazione per evitare la morte.

(da L’Altopiano, 27 aprile 2013)

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