Nonna l’ho sempre vista con la corona del rosario in mano: “Questa (me la indicava mettendola bene in mostra) è la corda di impiccagione del Demonio”. La portava dappertutto, sempre: fatico a ripensarla senza, non riesco proprio ad immaginarmela. Se non ce l’aveva tra le mani – quando faceva il bucato, puliva il bagno, metteva la cera al pavimenti – la teneva a mò di bracciale. Però non se ne distaccava mai: provare ad immaginarla senza, è come staccare il pallone dai piedi di Roberto Baggio, la bicicletta da Marco Pantani, le scarpe da corsa a Pietro Mennea. Li abbiam sempre visti così, tanto che senza non sono più loro.
(Con)fusi nei loro arnesi.
La mia nonna è rimasta (con)fusa nel rosario: è la sua lingua madre.
È rimasta ospite nelle storie che amava raccontarmi.
«Parlami tu del tuo Figliolo, madonnina mia» chiesi un giorno.
D’allora la sua risposta è sempre la medesima: «Vieni dietro a me!» Capisco che è l’ora esatta del rosario. Venti misteri – gaudiosi, luminosi, dolorosi, gloriosi – che sono come le tappe del Giro d’Italia: da zero a cento in 200 Ave Maria, venti Padre Nostro, altrettanti Gloria al Padre. Eppoi le belle litanie. Venti tappe: dall’annunciazione dell’Arcangelo a Maria all’incoronazione di Maria Regina del Cielo e della Terra. In mezzo, tutto il resto. Il resto della vita di Gesù: la nascita, l’allevamento, la vita privata e quella pubblica, botte da orbi, le cose sopportate, quelle vissute. La passione, la morte, la risurrezione. L’ascensione al cielo: tutto il resto «è giorno dopo giorno. E giorno dopo giorno è silenziosamente costruire – canta Niccolò Fabi nella canzone Costruire -. E costruire è sapere, è potere rinunciare alla perfezione. Ma il finale è certo più teatrale. Così di ogni storia ricordi solo la sua conclusione».
La conclusione di Cristo, con tutta la sua storia, è ancora Maria: dopo l’incipit dell’Annunciazione, il finale dell’Incoronazione. Tutto (ri)torna.
Lui e Lei: sarà più facile dividere la luce dal sole piuttosto che Lui da Lei.
La sera, prima d’uscire da quest’inferno di carni assatanate e assetate ch’è la nostra patria galera, passo per la cappella a salutare la nostra Madonna. La guardo, sovente mi siedo davanti a Lei, il più delle volte non so manco cosa dirle da quanto caos specifico c’è nel mio cuore. Capita che, iniziando a recitare il rosario, m’invada una calma di così grande urto da farmi addormentare. Son gli istanti più belli, attimi di una densità spirituale senza paragoni. Sono la mia dichiarazione d’incapacità di star in piedi da solo. Di non poterne più d’essere condottiero d’un popolo così peccaminoso d’apparirmi condannato al fuoco eterno: «Non ne posso più, Madonna mia. Non capisco più niente. Non voglio saperne più, questo non mi riguarda, prendeteli, ve li affido, fatene ciò che volete (…) Ne avete tanti altri! Uno di più, uno meno quale peso possono darvi? Avete avuto il Bambino Gesù, ne avete avuto tanti altri» (C. Péguy). Parole pronunciate sull’orlo del collasso, sul punto di crollare: sono le mie ultime parole quotidiane.
Poi esco di galera, un po’ più leggero.
E, uscendo, nei corridoi spogli avverto un’eco su misura: “Prenditelo, te lo affido, fanne ciò che vuoi. Non ne posso proprio più di Marco, Madonninamia. Non lo capisco più, non voglio più saperne. Uno più, uno meno cosa ti cambia: tienilo tu!” Parole intercettate nelle orazioni disperate delle femmine di casa mia, nelle invocazioni di cuori in affanno per causa mia, negli sguardi minacciosi di chi, senza dirlo, mi ficcherebbe dritto all’inferno. Per poi vedermi ardere vivo.
Ma, prima, (ri)tenta l’ultima carta, ch’è sempre Maria. I miei giorni di galera, quelli che giunti a sera stanno in piedi, sono tutti così, si somigliano tutti: stanno in equilibrio sui fili di un’Ave Maria. Ripetuta per cinquanta volte: cento, cento e cinquanta. Molti giorni duecento: duecento Ave Maria per ritrovare il coraggio di gettarmi in mezzo ad un branco di lupi e, misteriosamente, scoprirmi a guidare quel branco. Tutti, tra quelli che accettano, in direzione del suo Figliolo.
Perchè i migliori inizi capitano sempre dopo i peggiori finali.
Tutti sospesi sulla fragile potenza di un’Ave.
Tra milioni di bestemmie infami: Dio ha gli uomini che vuole avere.
«La grazia è improvvisa come un’insidia, la grazia è sottile.
Quando la grazia non giunge per strade diritte, batte strade traverse.
Quando non giunge da destra, giunge da sinistra.
Quando non giunge seguendo una linea retta, giunge seguendo una linea curva o spezzata.
Quando non giunge dall’alto, giunge dal basso;
quando non giunge dal centro, giunge dalla periferia.
Quando non zampilla come improvvisa fontana, se vuole sa procedere come un’acqua, che passa lambendo le dighe della Loira» (C. Péguy)
L’Ave, recitata finchè diventa rosario, l’ho imparata leggendola negli occhi di nonna: non è stata solo l’amica di Gesuina, è stata soprattutto la nostra prima catechista. Prima ancora: è stata il primo libro di teologia, manuale di mariologia che, senza manco saperlo, iniziai a sfogliare quand’ero un bambino. “Il Natale: l’unica storia interessante che sia mai accaduta” mi disse un giorno. Se al posto del Natale avesse detto “L’incarnazione”, avrebbe potuto concorrere al posto di Prefetto della Congregazione per la Fede. Impeccabile: la morale è stata ideata dai deboli, la vita cristiana è stata fondata da Gesù Cristo.
Nonna lo sapeva,
Lei non m’insegnò l’Ave Maria. La imparai a furia di leggerla nei suoi occhi, di intercettarne le sillabe sulle sue labbra mentre inumidiva il filo per farlo passare più comodamente nella cruna dell’ago. O mentre, alla sera, sciacquava i piatti di ceramica: era come se passasse una mano sulla giornata appena trascorsa. La sua Ave Maria era il condimento di tutto il suo daffare feriale: dove c’era poco, si divertiva a costruire tutto. Il tutto che bastava alle giornate dei suoi, di casa sua.
Era come se le parole fossero tutte ammassate, un grande assembramento, appena dietro il suo sguardo: chiedevan di transitare attraverso i suoi occhi per riuscire ad entrare nei miei. Le mie nonne, in vita, fecero scoperte così geniali d’apparirmi persino impossibili, visti gli strumenti rudimentali che erano in loro possesso. Insegnavano con l’attrattiva del bello, non con l’orrore del brutto.
Nonna sapeva benissimo d’essere sulla strada giusta. Ma era come se, ogni giorno, avesse bisogno di consultare i cartelli stradali che indicavano la strada. Più sinceramente: si vedeva che provava sommo piacere nel consultare Maria, che è sempre stato il suo cartello stradale preferito per non perdere la traiettoria di Dio. “Basterà una piccola speranza per ricominciare sempre” ci diceva spesso. Poi, non bastasse, aggiungeva: “Quando stai affrontando qualcosa e avverti la paura, recita sempre un’Ave Maria. Vedrai che quando tu arrivi, Maria sarà già arrivata prima per prepararti la strada”.
Detto e fatto.
Rifatto.
(da Marco Pozza, L’invidia di Satàn, San Paolo, 2021)
Da lunedì 19 aprile 2021, in tutte le librerie, L’invidia di Satàn (San Paolo, 2021), il nuovo libro di Marco Pozza su Maria di Nazareth.
(dalla quarta di copertina) – Adesso è facile, «basta il suo nome, Maria, perchè gli uomini esagerino, non capiscano più nulla. La chiamano povera donna, Madonna, bella donna. L’Immacolata, l’Avvocata, la Regina. I poeti hanno grattato il fondo del barile per escogitare le parole più giuste, le meno slabbrate, le più ardite». Lei, però, ama presentarsi con passi felpati, raccontata dalle nonne ai bambini, pregata dai bambini per i nonni. Invocata da santi, delinquenti e criminali.
Marco Pozza, “alla prova di Maria”, ne celebra l’unicità tessendo in armonia la devozione popolare, la teologia cattolica, i racconti paesani. Rievoca la storia di Gesuina, una vecchia amica della nonna che, solo nel nome, teneva nascosto l’agguato di Maria. Del suo Figliolo: «Perchè Gesuina è la versione femminile del maschile Gesù». Maria è il Gesù in miniatura, «la versione umana più vicina al Dio (dis)umano». Dalla nonna, mentre cucinava i broccoli impastava i dolci, faceva la pasta a mano: l’ha conosciuta lì, l’autore, la Vergine di Nazareth.
L’invidia di Satàn, l’imbecille fatto carne.
Il libro è un viaggio dissacrante e profondo attraverso le quattro stagioni della Vergine, con sullo sfondo i venti misteri del santo Rosario, «la corda di impiccagione di Satàn». Una storia ch’è tutt’ora muro di cinta tra il tempo e il non-tempo. Tra l’uomo mortale e il suo Dio.
Storia di una Madre, affidata alle labbra: «Dovevate sentire nonna recitare il rosario!»
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