Giusto all’indomani della sua morte – onorata a furor di poveri-cristi che la piangevano come madre e protettrice, anche loro regina – il mondo uscì che era assai simile ad un carro ribaltato, ruote all’aria. Eppure, fatti bene tutti i conti, la vita di Teresa di Calcutta (1910-1997) fu una vita intera di povere giornate. Sarà difficile, per chi vorrà taroccarne la santità, trovare in lei minima traccia di quello straordinario che tanto ammalia l’uomo quanto lo rende fiacco. Di straordinario non fece quasi nulla, eccetto l’allenarsi a far spazio nei sogni ai sogni di Dio: le cose straordinarie più che apparecchiare sparecchiano. Al contrario, le cose normali preparano l’animo a cogliere le occasioni, a fiutare gli affari per il cielo, a diventar serve-di-Dio piuttosto che schiave-degli-uomini. La matita – «Io sono una matita nelle mani di Dio» fu una delle sue più umili autocertificazioni – da sola è poca roba: la mano, da sola, può poche cose. Con in mano una matita, il mondo abbozzò le più belle tra le canzoni d’amori possibili. Storie di compagnia.
Raccattò da terra la povertà, quella dei lebbrosi, ch’è quasi sempre la più scatarrata, vilipesa, offesa: dentro quella spazzatura vi scorse perle preziose d’immane valore. Eresse la povertà ad ostensorio della divinità. Molti, per la maggior parte cresciuti all’ombra dei fiacchi libri preteschi, pensano che la povera-donna di Teresa facesse tutto questo per Dio. Ci pensò lei, col Premio Nobel in tasca, a chiarire la faccenda: «Quello che faccio – disse mandando in tilt una certa spiritualità tarocca – lo faccio innanzitutto per me: quando faccio il bene, sento di star bene. M’accorgo che stan bene anche altri: allora so di farlo anche per Dio». Il bene che fa star bene: è il tutto della santità di questa donna che ha ingigantito il mondo facendo la raccolta-differenziata della povertà: prima le mie sozzure, poi quelle del fratello. Che tutto, poi, finisca nelle nelle mani di Dio. Tentata oltremodo da quell’essere lurido di Satana – «Il desiderio di Dio è terribilmente doloroso, ma l’oscurità sta diventando sempre più grande» scrisse a Mons. Picachy – seppe riconoscerne le differenze. Per questo s’era convinta che non bastasse fare il bene, ma che il bene andasse fatto-bene: era troppo il rischio che diventasse male. Siamo al cuore dell’ortodossia evangelica, come scrisse finemente don Primo Mazzolari: «L’esperienza insegna che è più facile mettere il bene dalla nostra parte, che mettersi a servizio incondizionato di esso». Il suo contrario è lo star-bene a buon mercato, il fare-il-bene per servirsi del bene: la solita cafonaggine di Satana, il portinaio del paradiso delle mezze-seghe. Fu per stare davvero dalla parte dei poveri che Teresa mise le cose in chiaro. Ch’era la parte giusta dove adocchiare Dio.
I poveri la sua faccia l’han tatuata persino sui loro bicipiti, l’han appesa nei tuguri dove vivono, è in bella mostra dentro le squallide celle delle galere: pare che Dio, ai poveri, conceda il lusso di scegliersi una madre-seconda, fors’anche per supplire alle deficienze della prima. «Che significa la frase che hai messo sul breviario?» (che il bene va fatto bene, ndr) è la domanda non-banale di un povero-cristo di detenuto. “Te la traduco – gli dico -. Qui dentro la galera, se uno ti ama per davvero non vuole solo portarti fuori. Vuole per te la libertà”. Il detenuto sa bene che la libertà non è scarcerazione, è cosa assai più sublime: costa immensamente trattar bene l’uomo, molto di più che il semplice parlarne bene. Peccato solo che, a tutt’oggi, qualcuno s’intestardisca a ritrarla col collo leggermente inclinato a destra, gli occhi azzurri, l’afflato tipico dei claustrofobici. Fossi pittore son solo le sue ginocchia che andrei per tutto il mondo a dipingere: lì s’annida la santità. Al sorgere del sole, subito in ginocchio, di fronte a Dio: fu così che riuscì a stare in piedi, dritta, di fronte agli uomini. Come torre di santità.
(da Il Mattino di Padova, 4 settembre 2016)
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