Giovedì Santo (Messa in Coena Domini)
Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.
(Dal Vangelo di Giovanni cap. 13 vv. 1-15)
Tutto pronto. La vita di famiglia, trent’anni, aveva avuto luogo. La vita pubblica, tre anni, aveva avuto luogo. La vita di casa, il banco di lavoro e la morsa, la sega e la pialla, era finito, questo era stato fatto. La vita di popolo, la montagna e la pianura, e il lago di Tiberiade, la predicazione e le similitudini, la cura delle parabole lungo le strade, era finita; questo era stato fatto. Tutto era pronto. Il coronamento stava per aver luogo. Tutto era pronto. Tutte le virtù private e pubbliche, tutte le virtù eroiche dei trent’anni e tre anni stavano per culminare nel sacrificio supremo. Tutti erano pronti: attrezzi, uomini e strumenti vari. Anche Giuda era pronto e il bacio saliva sulle sue labbra. Il bacio che s’aspettava dai secoli dei secoli, il bacio che si perpetuerà come sigillo di ogni umano tradimento.
Tutto era pronto, mancava solo un gesto. L’ultimo. Che cosa deve fare chi sa che di lì a poco morirà? Se ama qualcuno che ha qualcosa da lasciargli deve dettare il testamento. Noi ci facciamo portare della carta e una penna. Gesù Cristo va a prendere un catino, un asciugatoio e versa dell’acqua in un recipiente. Il testamento inizia qui; con l’ultimo piede asciugato potrebbe addirittura finire. Con il capo chino su di un misero foglio noi scriviamo: “Lascio la mia casa, i miei poderi…”. Gesù, curvo a squadernare il pavimento, immerge dentro l’acqua i piedi dei suoi amici. Cristo è all’opera rattrappito come una bestia ad accarezzare i nostri piedi callosi, a scrutare le nostre impoetiche unghie, ad annusare i nostri odori più scrostati. Si concede il lusso divino di umiliarsi.
Alzatosi dopo aver bagnato i piedi di quella ciurma di amici, lascia che i suoi occhi corrano vagabondi sopra la tovaglia della mensa, fra i rimasugli di pane: ecco il suo nascondiglio. Là si andrà a rifugiare. Non lo prenderanno stanotte: crederanno di averlo preso, strappato all’amicizia di Pietro e compagni: lui si è ficcato dentro quel pane: “Questo è il mio corpo, il quale è stato dato per voi”. Nessuno aveva mai avuto il coraggio di raccontarci un Dio che chiede di essere mangiato, che chiede che i loro petti diventino il suo nascondiglio. Poco fa ha lavato loro i piedi, adesso non gli basta chiede di più: scenderà nelle loro gole, si trasformerà fino a sciogliersi nelle loro fibre. Fino a trasformarsi in un comando: “Fate questo in memoria di me”. Uomini non più uomini quei Dodici: uomini trasformati in sacerdoti, i primi sacerdoti dell’umanità. Giuda, il primo dei cattivi preti. Pescatori infaticabili, esattori malfamati, gente sconosciuta, ignoti accarezzati da un raggio di divina Bellezza: Simone, Giacomo di Zebedeo, Giovanni, Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota. Primi, di un’innumerevole famiglia. Cosa importano i loro tradimenti, le loro miserie, le loro cadute? “La grande gloria della Chiesa – scrisse magnificamente Jacques Maritain – è d’esser santa nonostante i membri peccatori”. Sino alla fine del mondo, sino a quando le mani di alcuni uomini eletti innalzeranno l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.
Dovessi scegliere una reliquia della passione, andrei a pescare tra i flagelli e le lance quel catino di acqua sporca. Girare il mondo con quel recipiente sotto il braccio, guardare solo i talloni della gente, non alzare gli occhi oltre i polpacci così da non distinguere il volto delle persone. Questi sono gli uomini che ha creato il Giovedì Santo, questi sono i primi preti che mai come oggi appaiono una sorprendente stonatura. Non più privilegi umani: la castità, la solitudine, più spesso l’odio, lo scherno e, soprattutto, l’indifferenza di una società che sembra non aver più posto per essi: ecco la bella parte che ci siamo scelti. Disposti a giocarsi la vita fino in fondo perché un giorno risuonò nel mondo addormentato una promessa che sfiorava il ridicolo: “Chi salverà la sua vita la perderà, e chi la perderà per causa mia, la ritroverà”. Tra i dodici c’era anche Giuda.