PapaConfessione

“Che c’è di male?” vanno dicendo in molti. Per essere perdonati, però, occorre sapersi peccatori, e l’uomo moderno è sul punto di aver perso il senso del peccato. Se guardassimo il peccato puntando la telecamera dentro noi, vedremmo la devastazione che opera: ci intristisce al punto da non scorgere più il volto di Dio da nessuna parte. È una sorta di virus, che crea un senso di lontananza che spaventa tra la creatura e il Creatore. Una lontananza così abissale che sembra addirittura impossibile credere ancora nell’amore di Dio. “L’esame di coscienza, non dirmi che ci credi ancora” (e scoppia a ridere) mi dice una signora. Più che crederci, è un esercizio umano, prima che cristiano: certi giorni, la strettoia di un laccio che mi rende schiavo mi fa male come fosse un guinzaglio al collo. Quel male è la differenza tra quello che dovrei/vorrei essere e quello che invece sono. Nasce lì il desiderio di ribellarmi al male, il fermo proposito di resistere al male. Quando il prete mi assolve, è come se mi rivestisse della tunica di pelle (cfr Gen 3,21), mi dicesse: “Alzati, il passato non ti soffoca più!”
È il grande vuoto di Zaccheo (cfr Lc 19,1-10): continuava a buttarci dentro materia per riempirlo, ma più ne gettava più si dilatava. Ecco perché, un giorno, sfida il ridicolo: sale come una cornacchia sul sicomoro, “chi s’è visto s’è visto”. E, così facendo, vede Gesù. Ma non basta nemmeno quello: è necessario che il Cristo si metta di mezzo. Non basta vedere Gesù, è necessario farsi vedere da Gesù, che Gesù ci veda. “Ma come fa a vederci Gesù se è lassù in alto?” mi ha detto un giorno una bambina. Semplice, si nasconde nel sacerdote, quello con la stola viola addosso. È peccatore pure lui, nessuno lo discute: però, oltre che essere peccatore, è anche rappresentante dei fratelli che, con il nostro peccato, abbiamo ferito. Rappresenta Dio che viene colpito. È curiosa, questa cosa: Dio è troppo in alto, troppo alto, per venire colpito dalla nostra cattiveria. La avverte, perché gliela “fa sentire” Gesù, colpito nei fratelli. È una legge familiare, anche la mia mamma la sottoscrive: “Quando dici quelle cose a tuo fratello è come se le avessi dette a me: mi hanno fatto male, sappilo!” mi disse un giorno dopo una litigata furiosa tra fratelli. Quando, giorni dopo, è tornata a sorridermi, l’ha fatto chiamando anche mio fratello perché facessimo la pace davanti a lei. Lei, a dire la verità, non c’entrava nulla nella faccenda, non aveva di che perdonarmi (non per nulla mi ha sorriso non perdonato), ma era giusto che quel sorriso passasse attraverso lo sguardo di mio fratello. Esattamente come la mia offesa.
Al tempo della pandemia, in tanti lamentavano una mancanza: “Mi manca il poter andare a confessarmi!” mi ha scritto un’amica, una di quelle che dicevano “Parlo con Dio direttamente, non ho bisogno del prete”. Stavolta, invece, il fatto di non poter andare da un sacerdote diceva di sentirlo come un’ingiustizia. “Com’è questa storia, amica mia?” gli scrissi in un sms. La sua risposta: “Sono andata nel bosco l’altra sera, gliele ho dette tutte (a Dio), ma non son sicura che stavolta mi abbia perdonato. È un po’ strano da spiegartelo”. Non è strano per nulla: nel bosco non c’è una voce di ritorno che ti assolva, che ti assicuri che il peccato è stato annientato e ti dica: “Va’ in pace!” È un monologo: i monologhi stancano alla lunga, oltre a darti la sensazione che nessuno ti ascolti.
Che raccolga, ascoltandole con immensa pietà, le miserie: “Sono sempre le solite cose quelle che gli devo dire!” dissi un giorno ad un prete nella stagione della mia intolleranza alla confessione. “Hai ragione – mi disse con un’amabilità che ancora adesso ricordo -, non c’è nulla di nuovo neanche stavolta. La novità, però, è Lui: il solito maglione passa nelle mani del grande tessitore”. Rammento persino il gusto della caramella alla menta che il prete stava succhiando: è stata un’immagine che mi ha riaperto la strada verso Dio. “Le mie cose di poco conto Dio perde tempo ad ascoltarle – pensai -. Praticamente è come se avessi come lettore dei miei racconti niente meno che Dio!” Ci misi del tempo per riprendere la costanza alla confessione (dieci anni), ma a salvarmi fu quell’immagine. Più il fatto che, per farsi rimettere i peccati, occorra discendere dal sicomoro dove s’è adocchiata la grande possibilità, come Zaccheo, ed entrare nell’intimità di una casa, dell’anima: certe cose non si possono discutere in pubblico: occorre una giusta confidenza, una segretezza rispettosa, una quiete domestica.
Uno strappo da ricucirsi subito: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua»: chi sta male non può aspettare troppo tempo. «Scese in fretta»: chi non ha fretta a scendere non brucia “a puntino”. «Mi è capitato spesso di vedere come la grazia si serviva del silenzio delicato e rispettoso del sacerdote per entrare nei cuori – scrisse don Primo Mazzolari -. Un malato, assai difficile e lontano, si è improvvisamente deciso perché, durante tre anni d’infermità, il sacerdote che lo visitava non gli aveva mai proposto di confessarsi». Dio è così: continua a ripassare senza sosta per Gerico. La paura non è che Cristo non passi, ma che Cristo passi senza che me ne accorga.

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