«Me l’hanno combinata grossa. Mai avrei pensato mi fregassero così. È chiaro che adesso tante cose cambiano: non potrò più tornare l’uomo-furbo che ero». Il silenzio che carezza la canonica, tra l’argine e la pieve, stordisce: in una galera, invece, la confusione di centinaia di voci produce un ruggito come quello di un mare in tempesta. La tempesta è un muro di suoni, i suoni sono numeri di matricola. Le persone rinchiuse là dentro, una sorta di illustrazioni ambulanti, sono materia-solida per pagine di letteratura: incarcerati per rapina, smercio di droga, commercio di refurtiva, omicidio, stupro. Il bandito sa bene che trovare e pianificare rapine è relativamente semplice. L’unico ostacolo, forse, è la porta: di casa, di bottega, di legno, blindate. Portoni, portoncini. «Per quanto ricordavo – scrive E. Bunker nel suo romanzo Educazione di una canaglia –, vivevo da sempre in mezzo ai guai. Come facevo a dichiarare categoricamente che non sarei mai finito nei guai? Era un affronto alla legge delle probabilità». A contare, comunque, non è quanto si vince o si perde: è come si vince, o si perde.
Il mondo aveva perso Enrico. Enrico aveva perso il mondo: lui, con la sua storia, era diventato l’incarnazione della stravaganza tra i faldoni giudiziari. Poi, un giorno, il patatrac: «Le porte ero abituato ad aprirmele da solo: col tempo, era diventato un gioco da ragazzi. Dopo trent’anni di galera, se riuscirò a scampare dovrò dire grazie ad una porta. Questa, non avrei potuto aprirmela da solo: altri me l’hanno aperta». La voce è seria, il silenzio cavernicolo, il fisico, pur resistente, abbrustolito da un cancro infernale. Per quanto riguarda l’animo, lasciate stare: vive in perpetuo stato d’assedio. L’uomo che ho di fronte è stato una calamita di guai: «Ho collezionato un codice penale di reati, ma di questi nessuno mi rode più dell’aver tolto a mio figlio il diritto di crescere con un padre accanto». Nel nord-est non sono in tanti a poter vantare una conoscenza così dettagliata di strade, autostrade, stradine, numeri civici, stanze, casseforti: una banca dati-d’agguati. Chi si decide, per una sorta di vocazione, a rubare, mette in preventivo una o più pene da scontare in galera. Pochi calcolano, invece, che non tutto vada come preventivato: «Quando, in carcere, hanno capito che un brutto cancro mi stava letteralmente divorando, mi hanno sbattuto fuori: “Fatti curare, poi torna a finire la galera”». È quando il gioco diventa duro per tutti gli altri, che comincia a piacermi: in teoria tutti i detenuti vantano questa finezza d’orgoglio. Un sistema intellettuale che, in caso di emergenza, spande acqua da tutte le parti: «Dopo aver conosciuto la parrocchia del nostro carcere di Padova – racconta don Leopoldo Voltan, al tempo parroco di Campodarsego (PD), ora vicario episcopale per la pastorale -, come comunità avevamo offerto la nostra disponibilità ad accogliere un detenuto: volevamo provare a vivere seriamente la misericordia. Ci hanno proposto Enrico: non sapevamo nemmeno chi fosse. Gli abbiamo aperto la porta di casa, gli abbiamo dato le chiavi: uno di noi, dalla prima sera». A governare con la paura sono capaci tutti. Governare con la gioia è degli avventurieri-di-Dio: se il ladro, venendo di notte, trovasse la porta aperta con tutti dentro ad accoglierlo, che gusto ci troverebbe a scassinare la casa?
A febbraio un’equipe medica – condotta dal professor Pilati dell’Ospedale Sant’Antonio, in stretta collaborazione con lo IOV di Padova – mette il vecchio bandito sotto i ferri. Come antipasto, chemioterapie, radioterapie. I referti, le cartelle, le urine. Un’operazione mastodontica, una sorta di sperimentazione: l’uomo, per quasi tutti, è da buttare. “La giusta pena per ciò che ha commesso” – va dicendo, dietro le sbarre, qualche amico d’allora. Altri, invece, amano dare la sensazione d’essere i soliti-illusi: «Sono qui umilmente per te, Signore, che non hai mai disdegnato di confonderti con i pubblicani e le prostitute, con i peccatori e i condannati – pronuncia il vescovo Claudio all’apertura dell’Anno della Misericordia nella chiesa giubilare del carcere – . Sono qui per riconoscere e per dire che Tu sei qui dentro, non hai paura di sporcarti né mani né reputazione, custodisci per ciascuno una parola di salvezza». I galeotti sono incantati, Enrico segue la celebrazione via-skype dalla canonica: è abbagliato da quella sorta di papa-in-miniatura che è don Claudio. La notizia storce il loro sistema criminale: per un anno, fratelli-lupi, le porte non chiederanno nemmeno la fatica di essere scardinate. Le troverete aperte. Una beffa per professionisti stimati delle rapine. Per Enrico: «Mica ho ancora capito perché tutta questa gente voglia così tanto bene ad un vecchio lupo di galera come me, con un corpo che è più un rottame che un fisico, con tutta questa storia sfasciata addosso. Non merito». Chiaro a chi scrive, anche a chi legge, è chiaro un po’ a tutti: non lo merita affatto, ma ne ha urgente bisogno. E quando uno ha il cuore urgente, cantava Jannacci, non si può rassegnare. Chiarissimo anche a lui: «Un giorno ho chiesto ad una persona il perché di tutta questa sofferenza che sto patendo in questi mesi. Mi ha detto che, patendola, ne smaltisco un po’ di quella causata: “E se fosse vero?”, mi chiedo?». Misericordia non è offrirgli la luna su di un piatto d’argento: quello che affascina la comunità cristiana è di aiutarlo ad aiutare se stesso.
Di tenerlo a casa le sere nelle quali vorrebbe tornare in galera: «Ci sono sere che vorrei tornare subito in carcere». Ancora-galera? L’illogico ha tutta una sua logica: vera-galera non sono le sbarre, il cemento. La galera, quella che piega la roccia e il crimine, è lo stare esposti alle domande, lo stare dritti in piedi di fronte al brontolare delle colpe, imparare a reggere l’urto del passato senza defilarsi. «Lo giuro: in questo periodo sto scontando la galera più cruda, quella che fa tanto male. Sono le domande dei bambini che incontro in canonica (“Non potevi pensarci prima, scusa?”), le domande di mio figlio quando, dalla Francia, viene a trovarmi (“Papà, perché non sei mai a casa con me?”), gli sguardi della gente, le mille attenzioni, la malattia, i miei rimpianti: questa è la galera che mi tortura. Mai l’avrei immaginato mentre ero dietro le sbarre». Se c’è qualcosa di autentico, nella mente criminale, è il bisogno di una soddisfazione immediata. Il complemento di tempo-continuato è materia d’imbecilli, per loro. A fregarli, fatti i conti, è l’azzardo di chi li ama per come sono: rotti, slabbrati, impauriti fino a mostrarsi infrangibili. «A una messa hanno letto questa frase: “Vinci il male con il bene”. Quando non riesco a prendere sonno, mi metto a riflettere e penso che stavolta mi abbiano veramente fregato, aprendomi una porta. Amandomi». Date ad un essere l’inutile e toglietegli il necessario: ecco il monello! Fate assaporare ad un essere il necessario e strappategli via l’inutile: «Quando ero un bambino, la mia mamma mi raccontava che Gesù non aveva trovato neanche una porta aperta quando è nato. Lui no, nonostante fosse un bravo bambino. Io, che non sono stato bravo, ho le porte aperte e tutte le chiavi della chiesa in mano».
Porte aperte, chiavi in mano, la cassaforte davanti alla stanza: aperta pure quella. Impossibile fuggire dall’amore: «Vi ringrazio tanto della vostra tenerezza, della vostra vicinanza. Chiedo al Signore che vi benedica», ha detto papa Francesco nel giorno del suo compleanno telefonando via-skype alla parrocchia del carcere. Quel Francesco che Enrico ha abbracciato a lungo il 6 novembre scorso, nel Giubileo dei detenuti: «Senza parole. Si preoccupava per la pioggia presa per andare da lui. Non si è vergognato di abbracciare uno come me. Poi ha detto a tutti noi: “Grazie, perché ero triste e voi mi avete rallegrato”. La notte non sono riuscito a dormire per la troppa emozione”». Le strade, di notte, sono un invito appetibile per i banditi: pochi di loro sospettano che, sulle medesime strade, anche la Grazia viaggi in borghese, per non farsi da loro riconoscere.
Quando si chiude una porta, spesso un’altra si apre: è che guardando così a lungo quella chiusa, non ci si accorge dell’altra che si è aperta. Le prime luci di Natale splendono nella nebbia: la vinceranno, anche quest’anno. «Che sia un buon Natale anche per te!» saluta. Il verbo, declinato in quel modo, fa supporre che per lui già lo sia: riuscire a non confondere più l’abat-jour col sole, la cella con il mondo, è il Natale di Enrico. Credere che domani i morti risorgeranno: oggi, nell’attesa, risorgono i viventi. Natale, come l’amore, è uno s-concerto.
(da Il Mattino di Padova, 24 dicembre 2016)