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Il brano liturgico, proposto nella Prima Lettura e tratto dagli Atti degli Apostoli, è breve, ma significativo. E anche abbastanza sconvolgente, in un certo senso.
In poche, stringenti parole, abbiamo il racconto dell’Ascensione: Luca decide di narrare (forse per averlo già raccontato nel suo Vangelo) un fatto che ha sconvolto la Storia della Chiesa in una manciata di battute. Solo in apparenza, possiamo trovarvi una sciatteria.
Gli Atti ci raccontano questo episodio, sottolineando il “naso all’insù” degli amici di Cristo, incapaci di staccarsi dalla “gonna” del Maestro.

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11 – versetto omesso nella lettura liturgica)

Gli apostoli hanno bisogno di un angelo, che li solleciti a “darsi una svegliata”, perché di lavoro ce n’era tanto da fare! Dag a drè, come si dice a Milano… disciulès: datevi una mossa, insomma! A Roma, forse, si direbbe: daje. Qui a Milano, invece, si dice così. E questo è il ruolo che ha l’angelo, che interviene, appena dopo l’Ascensione: assicurarsi che non rimangano incantati, con il naso all’insù.
Il primo dettaglio che possiamo notare è che la chiesa nascente si inserisce pienamente nel solco del popolo d’Israele («quanto il cammino permesso in giorno di sabato»), ma, contemporaneamente, nel solco del proprio Maestro (fanno ritorno, infatti, dal «monte detto degli Ulivi», quello su cui il signore si era ritirato a pregare il Giovedì Santo e dove Giuda ben sapeva di trovarLo, perché, per i discepoli era un abituale luogo di preghiera, in compagnia del Signore).
Eppure, nonostante l’inserimento nel solco delle abitudini “tradizionali”, quel giorno è un segnaposto: è un giorno diverso da tutti gli altri giorni, prima e dopo di esso. Un giorno che segna un’era, che definisce un prima e un dopo. Prima, si sono susseguite diverse apparizioni del Risorto. Dopo, la Chiesa è chiamata a diventare testimone del proprio Signore, Risorto dai morti, che, dopo averle aperto la strada, la precede nel cammino.
Colpisce notare come ritornino, “come se niente fosse”, al solito posto, alle solite abitudini. Forse, però, il suggerimento è un altro: lo sconvolgimento è interiore: è necessario un tempo, affinché certi avvenimenti possano sedimentare, nel nostro animo. Perché ciò avvenga, spesso, non è necessario che siamo circondati da silenzio claustrale, in un’atmosfera monastica. A volte, è proprio tramite la quotidianità, tramite la nostra vita di tutti i giorni, che il Signore ci parla, ci fa comprendere qualcosa di sé.
Vi è poi un’interessante nota finale: «erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui». Anche questo dettaglio segna una continuità, nel solco dello stile del Maestro: uomini e donne pregano assieme, perseguendo una Comunione, così come avvenne nell’Ultima Cena. Una promiscuità che pare quasi accolta, più che cercata da Cristo. Basti pensare all’incontro con la Samaritana (Gv 4, 5 – 42), oppure con la Cananea (Mt 15, 21 – 28). Non sono incontri cercati, anzi: sembrano quasi casuali. Eppure, non sono indifferenti, né banali. Comportano, in entrambi i casi, un mutamento, un allargamento della prospettiva, una nuove visione sulla fede. Nessun incontro è esente da opportunità. Eppure, di fronte ad un ascolto consapevole ed accorto – un incontro potrebbe anche cambiare il corso della storia. Fino all’incontro con la Cananea, Gesù sembrava pienamente persuaso di dare assoluta priorità alle “pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10, 5 – 6). Mi è inevitabile domandarmi: senza quell’incontro, senza l’incontro col centurione, del quale guarirà il servo (Lc 7, 1-10), avrebbe poi detto, al termine del Vangelo: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 19)? È ragionevole pensare che Cristo abbia potuto modificare la propria strategia comunicativa, in base alla risposta ricevuta, consapevole del fatto di avere un lasso di tempo relativamente breve a propria disposizione.

 

Anche il Vangelo – che affronta l’episodio dei discepoli di Emmaus – racconta di un incontro. Un incontro determinante, che porta ad una visione mutata, che spinge a guardare da una prospettiva differenti fatti ormai noti. Gesù Cristo aveva predicato per le strade della Galilea e della Giudea, era stato accusato e fatto prigioniero, era stato condannato ed era morto. La storia era finita: ogni speranza in Lui riposta aveva ben ragione d’essere abbandonata. Del resto: che altro poteva essere aggiunto ad una storia – ormai – conclusa (pur se in modo insoddisfacente, rispetto alle precedenti attese)? Ci voleva un viandante che incrociasse la loro delusione, i loro sguardi stanchi e decidesse di condividere con loro un pezzo di strada, spiegando loro il significato delle Scritture, che era rimasto loro oscuro, nonostante ne avessero visto l’attuazione. Fino al capolavoro recitativo del rabbi di Galilea (“fece come se dovesse andare più lontano”). Come se. Tutta scena! In realtà, Cristo era lì, apposta per loro: per sollevare quei musi lunghi, per condividere le loro angosce, le loro paure, il loro smarrimento, la loro incomprensione. E non se n’erano accorti, ripiegati sulla delusione che abitava il loro cuore, appesantito dalla tristezza!

Un punto in comune, probabilmente, alle letture che abbiamo potuto ascoltare in queste Domeniche che hanno seguito la Pasqua, è quello della memoria. La Pasqua è un fatto, che sancisce un guado impossibile da ignorare. Di più. È l’evento che illumina e dona significato all’intera fede cristiana. Senza Pasqua, il resto delle verità di fede che proclamiamo crolla, come un castello di carte. Tuttavia, rischiamo di essere incapaci di leggere questo fatto, se non impariamo a fare memoria. Rischiamo di fermarci al Venerdì Santo, di rimanere delusi, amareggiati, di sentirci – perfino – traditi da Gesù di Nazareth. Traditi nelle nostre aspettative, nelle nostre attese; incapaci di assumere la visione che abbraccia la realtà, presa in prestito dalla sguardo del Padre. Anche noi, come i discepoli di Emmaus, abbiamo bisogno che Cristo si faccia nostro Compagno di strada, che spezzi il Pane per noi, che mostri la Sua Presenza, anche quando è accanto a noi.
Quante volte ci è accanto, ma non riusciamo a riconoscerLo, magari perché ci soffermiamo su quello che non va? La nostra fede debole, una Chiesa poco credibile, dei pastori poco affidabili, gli scandali, che – inevitabilmente – si susseguono, a causa della natura umana ferita dal peccato originale.

Una tentazione, sempre in agguato, ad esempio, è quella di vivere la sequela in modalità accentratrice e non nella logica di servizio, che Paolo, da sempre, ha cercato di incarnare come meglio ha potuto, nonostante potesse vantare di aver studiato presso uno tra i più importanti rabbini dell’epoca, come fu Gamaliele.
«Noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù» (2Cor 4, 5). È un monito, un augurio, un impegno. Ogni araldo del Vangelo è chiamato a mantenere la consapevolezza del proprio ruolo strumentale. È necessario sia consapevole di non essere il Sole, ma la Luna che ne riflette lo splendore: non è suo compito chiamare a sé, bensì, portare a Cristo. Perché è in Lui, in quel Pane spezzato e diviso, che la Memoria si fa Presenza.

 

Rif. Letture festive ambrosiane, nella Domenica dopo l’Ascensione  (At 1, 1, 9. 12 – 14; 2Cor 4, 1 –6; Lc 24, 13 – 35)


Fonte immagine: Il pasto, ciclo di Emmaus (Arcabas) 

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