quadro3Era goffamente incinta.
Ora le botti odorano di fresca spremitura:
ad agosto la vidi impacciata, sdraiata al sole,
perdutamente indaffarata ad abbronzarsi.
Lei e il sole:
lui la scaldava, lei provava piacere.
Eppure non si toccavano nemmeno.
La immortalai quel giorno, la contemplo stamattina:
Fatico quasi a riconoscerla.
“Son passate undici settimane, ragazzo:
in Natura sono un quarto di calendario”.

Quando lo incrociai in curva
era rigoglioso e sudato:
le foglie verdi, il tronco legnoso, l’aspetto nobile.
Quell’acero era d’insopportabile bellezza:
appena in cima allo strappo, in fronte alla vastità,
degno custode di una valle per me odorosa di fanciullezza.
D’agosto era nudo di fronte al cielo.
Stamattina l’ho visto stanco e invecchiato
seppur magnificamente più bello:
il colore delle foglie segmentose,
il profumo della resina dei suoi vicini,
il lento cadere di qualche sua foglia attempiata.
Attonito lo guardo e mi faccio guardare:
“Son passate undici settimane, ragazzo:
in Natura sono un quarto di calendario”.

La incrociai nel centro della mia contrada.
Il suo sangue profuma del mio sangue:
quassù gli alberi genealogici
sono come i labirinti antichi.
Siamo incroci di sangue, di vita, di cielo.
Stava retta, singolare nella sua postura di donna:
le spalle leggermente incurvate, la pancia appena sporgente
il seno stranamente restìo alla crescita.
Stamane, in calce al mio correre, l’ho trovata sotto casa:
col pancione all’infuori, beatamente colorata d’attesa,
ormai prossima alla nascita.
M’era scappata tutta la crescita, l’attesa, il miracolo.
“Son passate undici settimane, ragazzo:
in Natura sono un quarto di calendario”.

Quassù il cielo disegna sghiribizzi:
interpretarli è arte dei miei vecchi contadini.
Leggono il cielo e decidono le semine,
contemplano la luna e sospettano gli amori delle cerve,
bestemmiano il Dio di lassù e supplicano clemenza nelle nubi.
“Domani sarà brutto tempo” – dicono:
l’han capito dalla stanchezza del volo di un pettirosso.
Senza studi, senza diplomi: orgogliosamente saggi.

L’ho scovata nascosta sotto il castagno:
terribilmente bella, al punto da far tremare le gambe.
La vidi in pieno agosto,
con il sudore sulla pelle, la fatica della ripartenza,
il sogno ad oltre mille chilometri di distanza.
Sogna, ragazzo, sogna.
Mi ha pedinato ovunque
saliva con me negli aerei di nascosto,
si nascondeva nei bagagli sugli Eurostar,
s’alzava mattiniera per accovacciarsi dietro i cespugli dell’argine,
l’ho beccata dentro l’acqua della fontana.
Persino in doccia, tremendamente curiosa,
è venuta a controllare la muscolatura.
S’è alleata con l’influenza, ha influito sulle nubi,
ha minacciato con il mal di testa.
Adesso è lì, in fronte a me:
splendidamente dolce, come cucciolo di cerbiatto
spaventato da passi decisi.
La conobbi spavalda e arrogante,
d’intraprendente seduzione, nefasta.

Non parlava stamattina: taceva.
Ma lo sguardo teneva un sorriso accuratamente nascosto.
Chissà.
Le ho semplicemente detto:
“Ti ho dedicato undici settimane, donna:
in Natura sono un quarto di calendario.
Anche nella mia vita”.
Lei s’alza.
Le gambe sinuose, la veste ristrettissima,
il mio cuore che batte.
S’avvicina, mi prende il viso tra le mani:
bastano gli occhi di una zingara per far sballare il cuore.
Stavolta mi mette KO:
“Chiedimi quello che vuoi”.
Stavolta esagero,
onestamente smarrito.
“Vorrei essere il tuo Doge”.
Lei mi guarda e sorride.

Chissà.
Forse.
Può darsi.
Finalmente.

“Mancano ancora 42 km: corri!”
Undici settimane sono passate:
tutto è cambiato, solo lei è rimasta la stessa.
Schifosamente ammaliante.

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