“Mirando alla gioia, si sottopose alla croce” (Eb 12,2).
È vero. La seconda parte è la principale, mentre la prima è solo una semplice subordinata, ma finale (non è un dettaglio di poco conto). In più, il periodo è uno solo. Per cui, il semplice tentativo di considerarne una parte sola, su due, significa giocare sporco e inquinare il senso dell’intera frase.
E la sensazione mia è che, troppo spesso, l’accento sia stato posto solo sulla seconda parte, sottolineando la necessità della “croce” e della sofferenza, che va amata. Io sono scettica al riguardo. Infatti, pur sostenendo (ma forse è abbastanza oggettivo?) che la difficoltà, la sofferenza, gli ostacoli in generale portino a una generale crescita umana, a un sovrappiù di umanità, non per questo la auguriamo alle persone. Inoltre, porre l’accento sulla seconda parte rischia di far pensare a una sorta di perversione masochista, a una specie di martirio cercato, che farebbe pensare più propriamente a un kamikaze. Cosa che non rende giustizia al Cristo.
Solo prendendo come prerequisito la prima parte le cose riacquistano il giusto equilibrio, la luce adeguata e, oserei, una visuale più consona. Cristo mira alla gioia, ma si sottopone alla croce. C’è una ricerca della gioia, uno sguardo fisso ad essa, e per arrivarvi passa dalla Croce.
A questo punto tutto acquista un senso ben diverso. La gioia è sostanzialmente la fase più importante, perché indica la direzione da prendere, in base alla quale muoversi. Che resta l’obiettivo principale e che abbiamo non la certezza ma una speranza certa (buona speranza) di raggiungere.
Ecco allora che, attraverso la Croce di Cristo, raccogliamo tutte le croci del mondo. Questa Croce si tinge di umanità e aiuta a spiegare le nostre difficoltà. Ma solo se ci ricordiamo che non è la fine, né un fine, ma un mezzo attraverso il quale passa (e probabilmente ci passano tutti, almeno in un momento della propria vita) chi non distoglie lo sguardo dalla Gioia a cui punta.
Perché tutti miriamo alla gioia, quella più vera e più autentica, nonostante qualche volta ci capiti di rimanere abbagliata e di essere incapaci di indirizzarci verso la giusta meta. Ma la sofferenza di certo non la cerchiamo. Pur tuttavia, è qualcosa di necessario, nel senso che non la possiamo scansare o evitare, tante volte non la possiamo prevenire e non possiamo darne la colpa a nessuno, se non al semplice fatto di essere uomini. Per cui la fiducia tradita ci fa soffrire, così come siamo soggetti alle malattie e alla morte. Perché nonostante i mille progressi della scienza e la giusta fiducia che possiamo esprimere nei suoi confronti, ciò che maggiormente ci mette in pericolo, più ancora delle grandi catastrofi, sono le cose che non vediamo a occhio nudo perché troppo piccole (microorganismi, virus, batteri, cellule tumorali, metastasi…). Sono loro la minaccia che più ci spaventa.
Eppure, proprio questo vederli come nemici potrebbe essere la mossa peggiore. Perché in alcuni casi non è possibile combattere; bisogna “tenere botta”, quello sì; ma, soprattutto, riuscire nell’impresa forse più ardua e cioè abituarci alla possibilità di un cambiamento radicale, a rinunciare a tante cose che prima consideravamo normali e scontate, ad attuare proprio un diverso stile di vita.
Tuttavia continuo a credere che certi “ostacoli” rappresentino anche delle opportunità d’oro. Ci fanno verificare i legami che contano e rinsaldano quelli più veri. Perché solo gli amici disposti a condividere il nostro cambiamento, a strapparci un sorriso e ad accettare il nostro cambiamento sono quelli veri. Di più: la loro capacità di accettarci nel nostro essere diversi da prima aiutare anche noi ad accettarci anche in una condizione nuova e diversa. E, anche se non sarà una prova facile per nessuno, sarà la discriminazione fondamentale: perché solo chi saprà andare oltre le il nostro fare, il nostro agire, le nostre capacità, dimostrerà di saperci amare davvero, solo e semplicemente nel nostro essere, senza utili o secondi fini, mostrandoci così, molto concretamente e molto semplicemente, di essere sprazzi dell’amore di Dio.
C’è una figura straordinaria, ma un poco stereotipata col tempo. È quella di Giobbe. Solitamente, è famoso per la sua fiducia incondizionata in Dio, però si legge sempre solo una parte del suo libro. C’è un Giobbe nascosto che ci restituisce un figura molto più inquieta e, in un certo senso, però, molto più umana, densa di dubbi nei confronti del proprio di Dio, della giustizia e della pietà.
Credo che ormai non abbiamo più dubbi sul fatto che le malattie non possano essere “colpe” da scontare. Posso solo pensare che sono solo occasioni, opportunità per andare oltre la mediocrità e la banalità di chi non sa ringraziare dei doni dell’oggi. Ma la meta resta sempre la gioia, c’è un futuro che si apre su cose migliori, anche solo perché si possono apprezzare le cose rimaste inapprezzate. Forse, il problema è che non sappiamo proiettare lo sguardo un po’ più in là e allora non riusciamo a scorgere la gioia…