pagnotta

A me piacerebbe tanto sapere che cosa compresero quelli che or ora avevano avuto parte di quel Corpo e di quel Sangue per la prima volta. Il Figlio dell’Uomo era lì, adagiato al centro della tavola, e nello stesso tempo ciascuno lo sentiva fremere dentro di sé, palpitare, bruciare come una fiamma che sapeva di refrigerio e di delizia. Per la prima volta sulla faccia della terra si stava compiendo un prodigio: possedere la persona che si ama, incunearsi dentro di lei, diventare un tutt’uno con il desiderio d’amore. E’ dalle parole pronunciate da Gesù subito dopo che noi possiamo misurare l’amore che traboccava nei discepoli – impauriti e innamorati allo stesso tempo – poiché li chiama “figlioli” pur essendo uomini rudi e nel vigore della loro età. “Prendete, questo è il mio corpo” , “Prendete, questo è il mio sangue”. Mai aveva parlato loro come in quella notte. Essi intuiscono che il loro amico è Dio e che Dio è amore. E chi, in anteprima nello schermo della storia, ha posato il capo sulla spalla del Figlio dell’Uomo, custodirà per sempre ogni parola (liturgia della XX^ domenica del tempo ordinario).
A pensarci ti gira la testa: che tutti i delitti che porti nel tuo cuore nel momento in cui abbracci quell’Ostia non sono più tuoi? Un Altro li ha fatti suoi dopo che il suo perdono è sceso nell’anima con le parole del sacerdote? Come il centurione anche nell’uomo della cronaca quotidiana la sua miseria, invece che a disperare, lo aiuta a comprendere di quale amore è stato amato. Per un triste e prezioso privilegio, il peccatore ha bisogno dell’amore che più lontano lo insegua e più dal basso lo risollevi. Se noi lo amiamo è segno che Lui per prima ci ama. E così una fiducia quasi folle nasconde tutti i nostri dubbi, tutte le nostre inquietudini e cancella il ricordo delle nostre brutture. Scrive F. Mauriac: “Felice colui che, ritornando dopo la Comunione al suo posto, non ha bisogno di parole, ma adora e tace”.
Essere partecipe in presa diretta di un Cristo che cerca nascondiglio nel tuo petto, che s’insinua nei tuoi pensieri, che sveglia il tuo torpore. L’eucaristia! L’emozione di un Dio che ti raggiunge come sei: peccatore e schiavo, menefreghista, codardo e marcio. Sporco, splendido e irriverente. Stupito, stupido o ignavo. Non importa: Cristo entra! A volte sento le mani tremare nell’atto della consacrazione: il gesto massimo del sacerdote. Senti sulle spalle incurvate il peso del divino, la tenerezza della tua debolezza di uomo, la potenza di un mistero inafferrabile. Che ti rapisce liberandoti. Nelle tue mani sporche, il Corpus Domini. A volte mi smarrisco negli occhi di chi s’accosta alla comunione: lo stupore e l’abitudine, l’emozione e l’attesa. La noia, la malinconia e la svogliatezza. “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51). Peccato che a questo pane ci siamo abituati: cioè non ci dice più nulla. Qualcuno balbetta un amen “in calare”, qualcun altro si scoccia del disturbo, qualcuno lo imbocca come una caramella. Qualcuno ci crede davvero e, quasi, lo vedi piangere. Singhiozzare. Vedi una lacrima attraversargli lo sguardo ridente e fuggitivo. Perché questa è l’Eucaristia: lasciarsi andare, afferrare e strapazzare dall’onda di Gesù Cristo. Percorrere sentieri inediti, tracciare percorsi di fantasia, capovolgere i tuoi programmi. Chi celebra l’eucaristia si sente più libero, sa di essere uomo ma non più uomo. Sa di non meritare l’eucaristia – “O Signore, non son degno di partecipare alla tua mensa…” – ma conosce quell’abbraccio che ti fa ripartire, che ti rimette in cammino, che traduce la debolezza in potenza inaudita.

I famosi padri del deserto egiziano ci hanno lasciato una serie di detti e di apologhi spirituali di grande suggestione. In uno di questi si ricorda il gesto stravagante compiuto da uno di loro nei confronti di un discepolo che gli chiedeva quanto intensa dovesse essere l’unione con Dio. Il maestro l’aveva fatto scendere nel Nilo e gli aveva schiacciato la testa sott’acqua. Quando, ormai disperato, il discepolo era riuscito ad emergere si era sentito apostrofare così: “Che cosa hai desiderato di più in questi istanti terribili?”. “L’aria” – rispose naturalmente il discepolo. “Ebbene – concluse il maestro – devi desiderare la comunione con Dio con la stessa intensità con cui hai bisogno dell’aria che respiri”.

Chi crede nell’Eucaristia non sta con le mani giunte, ma tiene le maniche rimboccate. Se la testa è leggermente inclinata non è per deviante misticismo, ma per intraveder nelle fessure strade nuove in cui lanciarsi. Perché nel profumo di quel pane spezzato annusa la forza del sogno. Diventa un insoddisfatto. Un insofferente delle mezze misure. Uno deciso a perdere tutto pur di tentare l’avventura della nudità più povera di fronte a Dio. E quando c’è di mezzo Dio sognare è un dovere. Perché il sogno ti permette di immaginare una realtà diversa, perché impedisce di dormire. Il sogno ti sveglia, ti mette in piedi. Quando nel mondo è accaduto qualcosa di nuovo, è avvenuto grazie a dei sognatori terribili, inguaribili, che si ostinavano ad immaginare una realtà diversa. Nuova. Fuori dalla banalità.
M’affascina da sempre la gente che, celebrando l’eucaristia, ha immaginato un modo diverso d’essere uomini. D’essere preti! D’essere liberi: di innalzarsi e abbassarsi, di costruire, distruggere e ripartire. D’essere pazzi per Dio! Può darsi che anche a te, come a me, ti consegnino dei fogli già scritti. E t’invitano a ripeterli all’infinito. Ti fanno capire che la pagina è già stata scritta, che è tutta piena, che non ci stanno più parole. Che è tutto in ordine. Ma tu, se se sei uomo eucaristico, butti subito l’occhio sui margini, su quello spazio tutto bianco, vergine, in-usato. Cioè avverti la possibilità di annotare intuizioni, tentare imprese, dissociarsi dallo scritto. I margini sono gli spazi prospettici che ti regala l’Eucaristia: si vive ai margini. Ma si scrive anche ai margini. I poeti annotavano ai margini le loro correzioni, che perfezionavano e abbellivano i loro testi.
Cristo stesso visse per anni ai margini. Per abbozzare la ricetta di quel Pane che ancor oggi rimane il gesto più ambizioso e paradossale della storia.

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