SelfieCi sono quelli che postano i piatti di cicoria che ordinano al ristorante e quelle che, sdraiate sulla sdraio, si fotografano le gambe col mare sullo sfondo. Chi si lascia ammaliare da una cima tempestosa e le offre uno scatto e chi, magari ignaro, s’accorge della profondità di uno scatto solo dopo aver premuto a caso il touch-screen del telefono. Ciò che importa è che, quasi in istantanea, quegli scatti vadano subito a far bella figura – a far fare bella figura – nelle piattaforma virtuali, vere e proprie piazze del desiderio e della curiosità. Spazi in cui il tempo, la distanza e le possibilità vengono annullate e tutti possono avere quegli istanti di gloria che un semplice clic a volte riserva. Facendo di storie anonime, piccole storie di copertina, sempre gradite nei mesi estivi. E’ il caso di nonna Lidia e del marito che, con una foto postata su Instragram, hanno osato mettere in discussione il glamour della coppia Rodriguez-De Martino: «La coppia più glamour dell’estate siamo io e mio marito, complici le nostre scorribande nei posti più chic della Tuscolana: ci dividiamo tra spese pazze al Carrefour e la movida dei mercati ortofrutticoli più in, senza tralasciare le ultime tendenze in fatto di cantieri in costruzione di cui mio marito è appassionato».
L’insalata e i piedi. Anche le facce, però. E’ il caso dei selfie, la tendenza a fotografarsi alla quale nessuno sembra sottrarsi, neanche un’anti-star dichiarata come papa Bergoglio. Fotografarsi, per poi rendere social uno scatto. E’ l’evoluzione della fotografia, forse anche un suo impoverimento. Fino a qualche anno fa fotografare era come estrarre un attimo dal flusso del tempo, sottrarlo dal passato e dal futuro, rendere eterno un qualcosa che ci aveva colpito, trafitto, spalancato su prospettive diverse. Era una liturgia nata per celebrare l’attimo: quando il temo ci opprime, talvolta è un secondo a salvarci. Esserci, accorgersi, scattare una foto: «La foto è lì, si raccoglie sulla spiaggia. Oggi sappiamo che è un attimo a salvarci», scriveva il fotografo Edouard Boubat. Scattarsi un selfie non ha nulla a che spartire con lo scattare una fotografia. E’ fotografare tutto ciò che si incontra, non tanto immortalare un frammento che ci colpisce. L’obbiettivo di un fotografo ritrae la quasi verità di un volto: tu, mentre te ne stai immobile a fissare l’obbiettivo, non puoi correggere quel tratto dello sguardo, quell’imperfezione del capello, quel piglio arruffato. Te ne accorgerai appena scattata la foto che, proprio perchè incontrollabile, ti mostra la verità di te stesso in quell’istante. Scattarsi un selfie, invece, è decidere di ritrarsi non tanto per come si è, quanto per come si vuole apparire agli occhi social: si sceglie la posa giusta, l’esibizione più provocante, il lineamento più accattivante. Ti vedi in diretta nello schermo dello smarthphone: solo quando ti sembra d’esserti avvicinato il più possibile all’immagine che vorresti dare di te, premi il tasto e fissi l’immagine. Per poi lanciarla nel mare di internet, come i messaggi nelle vecchie bottiglie di un tempo. In mostra, bella o brutta.
Ad importare non è l’inquadratura migliore, il tempo di esposizione esatto, l’intensità della luce e la prospettiva: conta la velocità nello scattare una foto e renderla social il prima possibile. Pochissime di queste foto sono gradevoli agli occhi: a risaltare è l’imperfezione della postura, la deformazione del volto, le distanze calcolate malissimo tra il soggetto da fotografare e l’oggetto che lo fotografa. Eppure – un quasi paradosso in tempi di perfezione estetica dilagante -, per un selfie si perdona tutto, basta che sia veloce e che arrivi il prima possibile laggiù: in quello schermo, in quella bacheca, in quel contatto di WhatsApp. Non mi faccio più ritrarre accanto a ciò che mi colpisce, ma accanto a quello che trovo: un’insalata nel tavolo, un gatto in bagno, un Papa per strada.

(da Il Mattino di Padova, 30 agosto 2015)

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