L’episodio della resurrezione di Eutico, che leggiamo dagli Atti degli Apostoli (At 20, 7-12) ha la capacità di congiungere la quotidianità con la straordinarietà.
Ci racconta, infatti, di una sosta di Paolo presso una comunità (durante uno dei suoi numerosi viaggi apostolici), nella quale si ferma a “spezzare il pane” e “conversare”. Forse, con le nostre abitudini odierne, siamo più propensi a pensare ad una catechesi. In realtà, molto probabilmente, era un antenato delle nostre celebrazioni eucaristiche e in quelle due azioni possiamo facilmente riconoscere le due parti principali della “liturgia della Parola”, con annessa spiegazione, e della “liturgia eucaristica”.
Gli Atti ci informano che la riunione si svolge al piano superiore. Anche l’ultima cena ebbe luogo al piano superiore. Questo ci fa pensare che, in Medio Oriente sia abbastanza frequente che, in una casa, la sala di dimensioni maggiori, in grado quindi di contenere molte persone, si trovi ai piani superiori.
Il giovane Eutico si trova nei pressi di una finestra del terzo piano. Siccome non c’erano né la legge 626, né le norme anti-Covid attualmente in vigore, dovremmo fermarci un attimo, prima di giudicare, in modo affrettato, come spericolato e poco assennato il ragazzo. Come detto in precedenza, evidentemente, in quella sala erano riunite molte persone. Ciononostante, a quanto pare, la sala doveva essere al colmo della capienza ed Eutico (e, probabilmente, non solo lui, ma anche altri ragazzi della sua età) si erano infilati nei posti rimasti disponibili, che, probabilmente sarebbero stati inaccessibili per i più anziani o per chi, comunque non aveva perfetta autonomia motoria. Quindi, vista anche l’attenzione degli uni per gli altri che Luca ha sempre sottolineato nelle comunità cristiane (al contrario di quanto, invece ci attesta Paolo, in alcune lettere infuocate, come ad esempio in 1Cor 11, 21-22), viene da pensare, che la posizione in cui troviamo Eutico era anzitutto una gentilezza, che gli consentiva di ascoltare, senza, per questo, sottrarre posto a chi era meno atletico di lui.
Ciò a cui, però, il ragazzo non aveva pensato era la lunghezza della predica di Paolo. Preso dal sonno, il ragazzo cade a terra e muore. Paolo, però, raccoltolo in un abbraccio, lo restituisce alla comunità, vivo. Non pago dello spavento procurato, Paolo, però, non aveva imparato la lezione e prosegue, imperterrito, nella lunga predica.
Stupisce un dettaglio, di questo episodio. C’è una lunga conversazione, in una sala piena di gente. Proprio la gran folla, forse, è il motivo per cui ci si accorge della pericolosa sonnolenza di Eutico solo quando, ormai, è troppo tardi, il danno ormai è fatto e si può solo raccoglierlo, esanime. Paolo, con parole rassicuranti, rincuora tutti (forse era il primo a sentirsi un po’ in colpa, sia per non essersi accorto dell’imminente pericolo, sia perché forse si sarà domandato se la propria predica fosse stato noiosa!) e compie una resurrezione. Non un miracolo qualsiasi! Una risurrezione. Il giovane, che era morto, dopo l’abbraccio di Paolo, è vivo. Può sembrare strano, ma se pensiamo sia qualcosa di impossibile, oppure abbia valore (esclusivamente) simbolico, stiamo dimenticando che Cristo stesso preannunciò, ai propri discepoli:
«anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre» (Gv 14, 12)
Ebbene, dopo tutto questo, dopo aver sperimentato la verità dell’annuncio di Cristo su quanto avrebbero potuto fare i credenti nel Suo nome, pur essendo stati “molto consolati” dallo scampato pericolo e dal vedere Eutico ritornare in vita, quanto accaduto sembra non scalfire la tabella di marcia prefissata: segue lo spezzare del pane e la conversazione continua. Tutto ciò sembra, quindi suggerirci un cambio di prospettiva. Se, di primo impatto, siamo forse portati a pensare alla grandezza del miracolo di un ragazzo riportato in vita, gli Atti sembrano ridimensionarlo. Come Lazzaro, anche Eutico è atteso dalla morte. L’appuntamento è solo posticipato, non annullato. Ecco perché si prosegue con quello che è il miracolo per eccellenza, anche se – talvolta – rischia di essere dimenticato, svilito, sopravanzato da tante altre cose, che, però, non sono essenziali.
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, avrà la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 58)
Sono parole che furono dure per i discepoli, che, intrisi della loro cultura ebraica, facevano fatica a vedere possibile la salvezza nel sangue, che, per loro, era qualcosa di impuro e da evitarsi nel modo più assoluto. Anche per noi, però, non risultano certamente immediate, pur provenendo da una differente cultura. Se può essere comprensibile, anche alla luce del significato antropologico assestatosi nel corso degli anni e particolarmente sentito dalle popolazioni neolatine, il valore della convivialità, tanto che l’abbiamo estesa, non solo ai pasti consumati in famiglia, ma tendiamo ad aggregare pressoché qualunque appuntamento (di lavoro, di amicizia, sentimentale) intorno a cibo e bevande (che sia un aperitivo, un “caffè” o la famigerata apericena), non è altrettanto immediata la comprensione per cui il pane spezzato e il calice di vino offerto debbano diventare il corpo e il sangue di Cristo. Anche adesso, a più di duemila anni dall’Ultima Cena e dalla predicazione di Cristo, non possiamo convenire con gli apostoli: “Questo linguaggio è duro: chi lo può intendere?”.
Perché in quel pane spezzato dovrebbe esserci il corpo di Cristo? Perché il calice dovrebbe contenerne il sangue?
Il motivo è spiegato nel Vangelo che propone la liturgia della Quarta domenica dopo Pasqua:
«Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 30)
La salvezza risiede nell’unità. In un’unità che non è conformità assoluta, perché è lo specchio della Trinità, in cui è l’amore il legante che tiene unite le distinzioni, senza appiattirle. Cristo si è incarnato, per portare a compimento il disegno di salvezza di Dio, che, in ultima analisi, è il ricongiungimento con l’amore di Dio.
Sapendo che, da soli, è difficile trovare la “strada di casa”, l’Eucaristia è come i sassolini di Pollicino: serve a noi, per non sentirci soli e “assaporare” il gusto di casa, anche mentre siamo ancora in cammino. E Dio si dona sempre in una comunità, perché Dio stesso è una comunità d’amore.
Così, è solo insieme che possiamo camminare verso la vera vita, di fronte a cui qualunque altro miracolo, pur mirabile, impallidisce, come qualunque lanterna sembra solo una luce fioca, di fronte allo sfolgorare del sole.
Rif: letture festive ambrosiane, nella IV Domenica dopo Pasqua, anno B
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Una risposta
Ottimo commento con spunto originalissimo.