Domani ricorrerà l’anniversario della sua morte: il 31 luglio 1944 partì per il suo ultimo volo aereo dal quale non fece mai ritorno. Antoine de Saint-Exupéry, lo scrittore-aviatore francese amato dal grande pubblico per il Piccolo Principe – divenuto, nel tempo, così grande da mandare in soffitta il suo papà letterario -, è morto nella carlinga del suo aereo, mentre sorvolava il cielo di Marsiglia: proprio lui che amava guardare il mondo dall’alto per poi perlustrarlo da-dentro e viverlo fino in fondo. Quella mattina, salendo in aereo, fu l’unica volta che lasciò a terra la sua valigetta in pelle di cinghiale, regalatagli da Silvia. Chiese al comandante di custodirla: «È un testamento quello che sto ricevendo. Saint-Exupéry ha il presentimento della sua prossima scomparsa e io ho l’impressione di avere davanti un redivivo. Sconvolti, iniziamo entrambi a piangere, fin quando non lascio la sua camera, portando sotto il braccio la valigia che mi ha consegnato» confidò il comandante Gavoille all’annuncio della morte. E dentro quella valigia trovò nascosto il vero capolavoro di Antoine, Cittadella, un breviario più che un diario: dentro quelle celebri 985 pagine dattiloscritte c’erano annotazioni, spunti, suggestioni, scarabocchi, appunti, appoggi. Divagazioni. Una sorta di bazar all’orientale, di scarabocchi volanti: c’era tutto il cuore-matto di Antoine.
Sono anni leggo quell’opera: più la leggo più mi viene voglia di rileggerla, e finisco per non finire mai di leggerla. “Cos’avrà mai di speciale quel libro” dirà il lettore che, messo a dura prova dalla lettura di quella narrazione scomposta, avrà finito per accorciare qualche pagina alla lettura? Di speciale non c’è nulla: il fatto-serio è che, dentro, Antoine vi ha mascherato la vita intera. Tutto ciò che più gli sta a cuore: il silenzio, la responsabilità, il tempo, l’educazione, la follia. L’infanzia, Dio, le navi, la casa, le tradizioni, i giardini, le rose. L’uomo: eccola la grande occupazione, l’immane preoccupazione dello scrittore d’oltralpe. Non un uomo qualsiasi, ma l’uomo colto nella sua statura primigenia: «Io ho bisogno di abitanti nel mio impero – scrive, pungendo, in Cittadella -, non di campeggiatori che non provengono da nessun posto». L’abitante conosce tutto del suo paese: l’etimo del nome, il colore delle tradizioni, la storia dei mestieri, la declinazione degli accenti. Quella terra è casa sua. Il campeggiatore, invece, non conosce quella terra: gli basta attraversarla, sorseggiarla, percorrerne qualche tratto per poter dire “Ci sono passato anch’io”. Attraversare, però, non è abitare: che è affezionarsi, stringerla, annusarla, assaporarla, gustarne le primizie, lavorarne le storture. Cittadella è il mio libro dell’estate: negli ultimi giorni di maggio lo tiro-giù dalla mia libreria (ammetto di avergli riservato una postazione speciale) e lo posiziono sul comodino, per averlo alla portata di mano.
L’estate è la nostra stagione. È d’estate – tempo di partenze, di approdi e di immaginazioni – che sovente si suggerisce al giovane, indaffarato nell’iniziare ad immaginarsi il futuro, che “l’importante è che tu abbia bene in mente dove vuoi arrivare”. L’importante è il traguardo, dunque. Antoine, invece, è tutto chino nell’indicare un altro punto di partenza, esattamente all’opposto: “Ciò che conta non è sapere dove si vuole arrivare ma sapere da dove si parte”. L’importante, dunque, è la partenza. Perchè – pare quasi di origliare le parole mentre tenta di addomesticare il piccolo principe – senza le basi scordatevi le altezze. A scuola certi professori si sono impegnati assai per rendermelo insopportabile. Andati in pensione quei professori, Antoine è diventato il mio migliore-amico: domattina saranno settantatré anni che si è alzato in volo senza fare più ritorno. Fatico ad immaginare morto un uomo che, con l’umilissimo strumento delle parole, mi fa ripetizioni di come fare per imparare a vivere. Per non lasciarmi-vivere da altri.
(da Il Mattino di Padova, 30 luglio 2017)